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The sun also rises (Tai yang zhao chang sheng qi) di Wen Jiang – Venezia 64: la recensione

Wen Jiang, attore culto del cinema cinese, regista di due film tra cui l’incredibile Devils on the Doorstep, un concitato gioco di specchi e rovesciamenti nella cina del 1944 occupata dai Giapponesi, qui in concorso a venezia con il suo terzo lungometraggio programmato qualche giorno fa. Le quattro sezioni di The sun also rises sono costruite come quattro mondi comunicanti, dove la ricerca del senso passa attraverso una disseminazione di segni che spezza le catene del tempo e della memoria anche in termini strettamente narrativi. Il passaggio non segue un’autorità cronometrica ma si fonda casomai proprio sulla cattiva sincronizzazione, sul varco e su una ricchezza di elementi visivi che non sono mai la rappresentazione di un mondo autoctono. Jiang Weng costruisce una macchina visionaria che va alla velocità di un film di Hong Kong e stratifica segni, materiali di memoria iconografica e storica come in un film di Paradzanov; davvero difficile ad una prima visione tener conto dei riflessi, i depistaggi, le rifrazioni di oggetti, luci, finestre della visione, la storia di quasi 40 anni di società Cinese. L’episodio centrale del supposto maniaco della mano morta che pizzica il sedere ad un’irresistibile Joan Chen posseduta dal fuoco di una ninfomania vitale si svolge nel grembo immaginario di un cinema all’aperto, dove le ombre di un vecchio film si confondono con la vegetazione naturale e vengono sfrangiate in mille simulacri, c’è un momento in cui la visione si ribalta continuamente, in una concitazione dalla durata fulminea vediamo le immagini sullo schermo, attraverso gli alberi, rfilesse su un velo d’acqua, increspate nuovamente da un sasso gettato nel piccolo stagno, confuse nelle soggettive multiple della caccia notturna al maniaco, trasformate in un rito panico dove l’elettricità della luce annega nel colore e nelle forme mutanti della natura. La fotografia di Zhao Fei e Mark Ping-bin Lee è di una perfezione che non ha mai un carattere invasivo o di assorbimento dello sguardo; si entra e si esce da questa fascinazione con una costruzione progressiva del senso che libera una costruzione cognitiva complessa ma mai sottoposta allo sforzo della ricostruzione. Nel cinema di Jiang Weng c’è la libertà fiabesca della follia, la costruzione zen del senso, la ricchezza del cinema di genere che si disintegra a contatto con lo spessore dei segni, rivelazioni di una stratificazione culturale che per fortuna mantiene la meraviglia del mistero; uno dei film più belli visti a Venezia 64.

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