venerdì, Novembre 22, 2024

VENEZIA 65 – “Akires to kame” di Kitano Takeshi – Concorso

Distruzione dell’artista o forse anche fendente spietato contro le sicurezze di una pratica critica incatenata a forme che eludono la vitalità dell’esperienza. La voragine aperta dall’ultimo cinema di Kitano Takeshi è soprattutto un buco nello schermo, lo sanno bene anche i suoi detrattori e quello che della trilogia sembra l’episodio più strutturato è in verità il capitolo che deborda maggiormente per vita e ricchezza. I colori desaturati della prima parte del film, assorbiti completamente da un occhio presemantico sull’arte invadono progressivamente lo schermo, lo riempiono, se ne riappropriano e allo stesso tempo rompono i confini dell’inquadratura. Akires to kame prende il cinema ellittico di Kitano, quello di Violent Cop che dipinge con il sangue, e lo espande. Non è il gioco della replica o della maschera artistica che interessa, se c’è uno squarcio di artisticità, questo è nella casualità feroce di un brutto che diventa sublime, quando a un certo punto la macchina da presa stacca su un girasole di plastica abbandonato sul sedile della macchina. A renderlo di nuovo vivo c’è la falsità assolutamente vera di quell’incendio in cui Kitano si fa sorprendere mentre lo dipinge; viene in mente, guardando quelle fiamme, Chris Marker che filma quella costruzione vera, quella mito-grafia della flagranza al confine con la commozione nella coazione a ripetere sul set Tarkovskjiano di Sacrificio; riaccendere, riaccendere, continuare a bruciare fino a che non sia possibile raggiungerla una forma viva della verità. E questa ripetizione, questa insistenza che rende l’artista una macchina autistica, consapevole e stupida, determinata e stolida è l’azione sottoposta ad una dilatazione infinita in Akires to kame. L’idea di Total Filmaker come grande distruttore che ci era venuta in mente guardando Kantoku Banzai e pensando in qualche modo a quel grande architetto che era Jerry Lewis, nel suo cinema fatto di spazio e distruzione, performance e improvvisazione, gioco e mutazione, controllo e perdita dello stesso, torna ad affacciarsi in questo splendido Akires to Kame. In una piccola e assolutamente personale suggestione performativa, il fantasma o la replica di Araki Nobuyoshi con i suoi inconfondibili occhiali infiltrato tra un gruppo di performer in un momento esilarante e assolutamente selvaggio, l’idea di Araki che si fa pisciare addosso mentre fotografa le ragazze a Shinjuku, Araki che entra nello spazio della morte a fianco del cadavere della moglie riducendo a zero e disintegrando la distanza scopica e occidentale del vojeur a favore di una trasformazione vitale dello sguardo, libera e performativa; in Akires to Kame c’è anche questo. La maschera di Kitano che dall’infanzia percorre tre tappe per arrivare ad identificarsi con il suo volto, brucia di nuovo e dei due occhi, dopo l’incendio, ne lascia libero solo uno, come quelli senza volto di Franju o la perdita di identità in un film non troppo noto di Hiroshi Teshigahara. La vertigine o il rischio, è quello di riappropriarsi della (propria) vita.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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