venerdì, Febbraio 7, 2025

Akires to kame di Kitano Takeshi: recensione – Venezia 65

L'idea di Total Filmaker come grande distruttore che ci era venuta in mente guardando Kantoku Banzai e pensando in qualche modo a quel grande architetto che era Jerry Lewis, nel suo cinema fatto di spazio e distruzione, performance e improvvisazione, gioco e mutazione, controllo e perdita dello stesso, torna ad affacciarsi in questo splendido Akires to Kame., nuovo capolavoro di Kitano Takeshi

Distruzione dell’artista o forse anche fendente spietato contro le sicurezze di una pratica critica incatenata a forme che eludono la vitalità dell’esperienza. La voragine aperta dall’ultimo cinema di Kitano Takeshi è soprattutto un buco nello schermo, lo sanno bene anche i suoi detrattori e quello che della trilogia sembra l’episodio più strutturato è in verità il capitolo che deborda maggiormente per vita e ricchezza.

I colori desaturati della prima parte del film, assorbiti completamente da un occhio presemantico sull’arte invadono progressivamente lo schermo, lo riempiono, se ne riappropriano e allo stesso tempo rompono i confini dell’inquadratura. Akires to kame prende il cinema ellittico di Kitano, quello di Violent Cop che dipinge con il sangue, e lo espande. Non è il gioco della replica o della maschera artistica che interessa, se c’è uno squarcio di artisticità, questo è nella casualità feroce di un brutto che diventa sublime, quando a un certo punto la macchina da presa stacca su un girasole di plastica abbandonato sul sedile della macchina.

A renderlo di nuovo vivo c’è la falsità assolutamente vera di quell’incendio in cui Kitano si fa sorprendere mentre lo dipinge. Viene in mente, osservando quelle fiamme, Chris Marker che filma quella costruzione vera, quella mito-grafia della flagranza al confine con la commozione nella coazione a ripetere sul set Tarkovskjiano di Sacrificio. Riaccendere, riaccendere, continuare a bruciare fino a che non sia possibile raggiungerla una forma viva della verità.

E questa ripetizione, questa insistenza che rende l’artista una macchina autistica, consapevole e stupida, determinata e stolida è l’azione sottoposta ad una dilatazione infinita in Akires to kame.

L’idea di Total Filmaker come grande distruttore che ci era venuta in mente guardando Kantoku Banzai e pensando in qualche modo a quel grande architetto che era Jerry Lewis, nel suo cinema fatto di spazio e distruzione, performance e improvvisazione, gioco e mutazione, controllo e perdita dello stesso, torna ad affacciarsi in questo splendido Akires to Kame.

In una piccola e assolutamente personale suggestione performativa, ci viene in mente il fantasma o la replica di Araki Nobuyoshi con i suoi inconfondibili occhiali infiltrato tra un gruppo di performer in un momento esilarante e assolutamente selvaggio, l’idea di Araki che si fa pisciare addosso mentre fotografa le ragazze a Shinjuku, Araki che entra nello spazio della morte a fianco del cadavere della moglie riducendo a zero e disintegrando la distanza scopica e occidentale del vojeur a favore di una trasformazione vitale dello sguardo, libera e performativa. In Akires to Kame c’è anche questo.

La maschera di Kitano che dall’infanzia percorre tre tappe per arrivare ad identificarsi con il suo volto, brucia di nuovo e dei due occhi, dopo l’incendio, ne lascia libero solo uno, come quelli senza volto di Franju o la perdita di identità in un film non troppo noto di Hiroshi Teshigahara.

La vertigine o il rischio, è quello di riappropriarsi della (propria) vita.

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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