Sfortunatamente non è piaciuto troppo il nuovo film del “raro”, anche come frequenza produttiva, Nelson Yu Lik-Wai.
Plastic City è prodotto dalla Xstream di Jia Zhang-ke, Chow Keung e lo stesso Yu lik Wai, presente in forze quest’anno a Venezia 65 con il bellissimo corto di Jia Zhang-ke Cry me a river e lo splendido Perfect Life di Emily Tang.
Risulta indigesta questa corrosione impietosa dell’immaginario mercantile della Cina Cinematografica che fino ad ora ha funzionato, generando negli anni una nuovelle critique che ha fatto della contaminazione il tormentone preferito per giustificare con un basso profilo teorico qualsiasi tipo di merda.
Hong Kong in metastasi e il simulacro della velocità vengono assorbiti nel sorprendente film del direttore della fotografia di Jia Zhang-Ke in un’opera complessa e magmatica che non può e non vuole puntare alla funzionalità, al postmoderno per i critici di massa, all’entertainment colto, alla solita manfrina dei codici di genere ormai labilmente generici e assolutamente autistici (lo sa bene un cineasta intelligente e fuori da tutti i mercati come Johnnie To) tanto sono azzerati e sottoposti ad uno stress feroce ritmo, documentario, tv globo brasiliana, mercato del brutto e il brutto del mercato, ma anche videoarte, in un uso dell’HD brutale e ambiguo in totale controtendenza con quell’ansia di perfezione spinta verso la postura del tridimensionale che è alla base di film come Dharm dell’Indiana Bhavna Talwar, completamente sedotti dalla presenza tecnica del mezzo.
Paradossalmente, il melting pot visivo di Plastic City è più vicino al Michael Mann di Miami Vice nella reinvenzione dello spazio urbano come immagine politica del contrasto, morfologia mostruosa e mutante che sceglie San Paolo in Brasile come luogo d’elezione per dissolvere un racconto che sfibra e disorienta come i residui noir del ferrara di New Rose Hotel, film che ha più di una strana analogia con Plastic City nel suo dilatarsi fino alla dispersione e in quel riavvolgersi improvviso degli spazi in un’immagine ricombinata della mente.
Lo stesso Yu Lik Wai, parla del suo film come di un’atrocità metafisica, dove “atrocità” assume un valore potentissimo se riferito alla visione digitale, realtà prodotta da una combinazione di codici numerici prima ancora di essere vista. Quella ricerca dell’io che porta di nuovo Anthony Wong nella giungla come se fosse un non morto si conclude in fondo proprio con la visione di una luce.
Non inganni la simbologia, è la matrice di punti che si percepisce, come nel teatro freddissimo e senza Regista che si trova dietro il sipario di Inland Empire. Ma è ancora la città il progetto e il non luogo che interessa ai signori della Xstream, in una lunga ricerca che da Platform è approdata sino a 24 City e anche alla breve reverie di fantasmi che è Cry Me A River, ancora immagini di un mondo che scompare senza lasciar traccia, visione Still life contro ogni estetica del “ritratto”, come quella degli inserti urbani inseriti da Yu Lik Wai in Plastic City, crominanza esaltata, piani della visione sfalsati, sfondi di San Paolo tra immaginario e realtà, pezzi di città estrusi, sospesi in uno spazio fantastico, collocati in rapporto dimensionale con oggetti, macchine, detriti.
Plastic City è un film assolutamente fantascientifico nel reinventare lo spazio percettivo della città in una psicogeografia difficilmente raccontabile; natura di una città devastata dalla morte che resuscita solo nella mente.