Quando Tunde Adebimpe attacca la sua versione intima di Unknown Legend, uno dei brani più belli di Neil Young scritto per Harvest Moon si ha la sensazione che il cinema di Demme sia un emozionante oscillare tra vicinanza ed estraneità, la stessa intrusione della soggettiva che scompagina tutti i piani narrativi nel cammino di Jodie Foster verso la camera ardente, in una sequenza notissima di Silence of The Lambs dove la morte è mostrata come un viaggio entro un anello temporale.
Il ritorno ai meccanismi della finzione per Demme trovano in Rachel Getting Married la libertà che aspettavamo dal suo cinema in un continuo entrare e uscire dal corpo della famiglia americana con la moltiplicazione del punto di vista documentario e l’immagine della memoria che scaturisce da gesti, azioni, volti; tra la forma apparentemente classica dell’Eastwood degli ultimi anni e questo allievo di Corman che si affida alla performance, c’è a mio avviso il sentiero di tutto quel cinema americano che piaceva certamente alla Nouvelle Vague e che si traduce in una capacità potentissima di affidare ai segni, ai movimenti minimi, alla forza dell’azione, tutto un universo complesso di possibilità interpretative.
Ma del citazionismo di The Truth about charlie, pietra tombale cinica (e cinicamente Cormaniana) su tutta la “scolarizzazione” citazionista delle nuove onde qui non rimane niente; Rachel Getting Married è un film potente e fisico come non se ne vedevano da anni nel cinema Americano; Demme, coadiuvato dalla splendida fotografia di Declan Quinn, tra video, televisione e formati ridotti, sta incollato agli attori e ai loro sentimenti come un entomologo, scatenando una splendida Anne Hataway nell’immagine commovente della (nostra) schizofrenia affettiva e servendosi della forza contradditoria di un home movie capace di cogliere ciò che non vorremmo rivedere o semplicemente riconoscere.
La scrittura di di Jenny Lumet, figlia del noto regista Americano, si muove entro il recinto di dialoghi fulminei, parole gettate come sassi e raccolte dallo sguardo di Demme come segni; è il matrimonio quì che diventa luogo di produzione dell’immaginario familiare, sospeso com’è in quell’eccezione del tempo che contrae tutti i ricordi, i tempi e le storie di un nucleo di persone.
Demme lo scompone con una prospettiva a 360 gradi disseminando il set di videocamere amatoriali, macchine fotografiche, dispositivi dello scrutare festivo che rivelano l’impossibilità del punto di vista nel documentare la forma tenera e vile dei sentimenti. Nella gemmazione degli schermi solo la performance può bucare l’occhio e restituire un momento non soggetto all’alterazione dello sguardo.
È noto come Demme abbia scelto di non utilizzare musica extradiegetica per Rachel Getting Married, sfruttando l’epifania di un suono sempre presente che viene colto nel suo farsi e staccato d’improvviso dallo sfondo performativo come se diventasse un prolungamento della visione dei personaggi; se dovessimo ribadire una banalità che non sembra chiara a molti registi italiani che insistono sul dispositivo realistico come se fosse una postura, non è importante cosa sto guardando.
Rachel Getting Married è attraversato da un ennesimo sguardo sull’esterno/interno di un gruppo di Ordinary People ma entra dentro una delle tante case-set come se agisse con una sonda sul corpo dell’immaginario telepresente del cinema americano contemporaneo che si è ormai allocato, anche in modo fecondo e creativo, sulle produzioni televisive; ancora, ribadiamo, non è importante cosa stiamo guardando.