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Venezia 65 – The Hurt Locker di Katherine Bigelow – in concorso

C’è un’analogia potente e per certi versi inaccettabile per uno spettatore politicamente corretto, comunque guidato dalla propria sensibilità politico-visiva, tra l’ultimo film di Katherine Bigelow e The Sky Crawlers di Mamoru Oshii, entrambi in concorso a Venezia 65; ed è quella di uno sguardo “nella” guerra oltre la morale del pacifismo, un iper-realismo estremo che osserva un organismo mentale e biologico all’interno dello stesso processo di formazione dello sguardo soggettivo. In questo senso, l’occhio di Katherine Bigelow supera in modo prodigioso il suo stesso cinema e buca la superficie megaloscopica che costituiva il bellissimo Redacted di Brian De Palma sostituendo i dispositivi artificiali della visione con un procedimento frattale. Viene in mente una delle battute di The Wrestler, il film di Darren Arfnosky con un’immenso Mickey Rourke in concorso a Venezia 65; Rourke invita un ragazzino nel suo bungalow ad una partita di Wrestling, un videogame anni ’80 sviluppato per le piattaforme bidimensionali Atari; il ragazzino è sdegnato e dice a Rourke di preferire le possibilità immersive di Call of duty 4, una shooter-saga in prima persona, molto popolare, la cui ultima versione è ambientata in Iraq. Durante The Hurt Locker, gli unici due occhi-schermo che vediamo sono quelli di un veicolo teleguidato, adibito al controllo delle mine e molto simile al robot-camera che sfugge al controllo di Michael Snow nella sua “Regione centrale”; e una breve schermata di uno shooter game in prima persona, durante un momento di pausa; sono brevi attimi in cui l’idea di visione riflette su se stessa e diventa metavisiva, perchè il percorso della Bigelow al contrario, è un vero e proprio viaggio allucinante dentro il corpo stesso della macchina guerra e non stacca un attimo da questa soggettiva interiore e infinita. E’ il corpo della guerra che viene sondato dall’interno, in un processo di mutazione che coinvolge anche la visione mentale del disinnescatore; dalla terra che rivela grappoli di bombe come se fosse malata di un virus terribile e parassitario, al cadavere del bimbo imbottito di metallo e dispositivi, mutazione dolorosa di un intero organismo biologico che ha modificato il modo di percepire la realtà della guerra. Ed è assolutamente coraggioso e inedito questo narrare senza racconto assumendo la struttura multilivello di un videogame, dove il dolore penetra quando la visione stacca un attimo da questa ossessione drogata e abbiamo la sensazione di una perdita totale delle coordinate dimensionali. C’è un altro bellissimo film “bellico” che esamina l’orologeria dei dispositivi di morte come visione distorta e vicina alla texture di una realtà mentale, ed è The Small Back Room di Michael Powell e Emeric Pressburger, girato nel 1949; David Farrar è un disinnescatore di bombe affetto da etilismo, il suo occhio viene progressivamente occupato dal dettaglio, dalla funzionalità del meccanismo, dal superamento della missione come fusione tra la logica del dispositivo e la visione amplificata del reale; si tratta, ovviamente, di un approccio visionario giocato sulla distorsione e l’amplificazione dei dettagli in una prospettiva che si riferisce anche agli artifici di certo cinema gotico, laddove Katherine Bigelow, cineasta del presente, entra dentro quell’interstizio che risiede tra corpo e mente e che ha influenzato la visione del reale e quella dell’entertainment contemporaneo, senza che ce ne accorgessimo; perchè war is a drug. L’iraq di The Hurt Locker ha la stessa consistenza astratta della città di Blue Steel, ma a differenza del precedente cinema della regista Americana, ci sembra innestato nella concretezza generativa del corpo soggettivo; a metà tra organico e inorganico, The Hurt Locker è un film doloroso e orribile che non lascia il tempo di riflettere e di riflettersi, è l’estrema visione sul reale-virtuale che sarebbe piaciuta ai grandi registi amorali del corpo mutante.

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