Amir Naderi riesce a realizzare Vegas: Based on a true story dopo una serie di tentativi andati male. Si stabilisce infatti a Las Vegas per due anni vivendo per mesi in un motel e racimolando il denaro per continuare a girare giocando d’azzardo e facendosi prestare i soldi da altri giocatori conosciuti durante la sua permanenza, cosi da sottoporre il ritmo di realizzazione del film ai capricci della fortuna.
Una penetrazione assoluta e radicale nel tessuto della città che gli permette di mettere in piedi faticosamente la sua ultima opera realizzata in digitale con un occhio assolutamente spietato e antimoralistico.
Eddie e Tracy Parker vivono insieme al figlio di dodici anni nella polvere di Las Vegas, quella che circonda la striscia principale che si sviluppa dal Flamingo in poi, la loro casa è circondata da un piccolo giardino coltivato con cura da Tracy; questa coesione già minacciata in modo non distruttivo dal vizio del gioco di Eddie viene compromessa dall’incontro con Brian, uomo misterioso che dopo aver cercato di acquistare la loro casa con offerte altissime insinua loro il dubbio che sottoterra si nasconda qualcosa a cui non possono rinunciare.
L’ossessione di Eddie per questo simulacro lo porterà a scavare e a distruggere contro la sua stessa famiglia mentre lo spirito di conservazione del figlio cercherà di portare in salvo parte del giardino.
Il cinema ossessivo di Amir Naderi cerca ancora l’immagine del deserto nell’ossatura della città americana, forma genetica che si rivela allo sguardo in un percorso che nel precedente Sound Barrier si era fatto sonico, mentre si era già aperto a possibilità centrifughe e polifoniche nel disossamento architettonico dei due viaggi dentro il cuore di Manhattan e nella morfologia intrecciata, ricca di passaggi ed enigmi dello spazio, nel bellissimo Marathon, ossessione della logica che si trasforma in una visione del transito e della possibilità.
Lo sguardo su Las Vegas diventa improvvisamente centripeto, si chiude all’interno di un set/casa destinato alla distruzione, variante cupa e claustrofobica della ricerca che muta in movimento immobile, che scava, toglie e gratta via squame.
Naderi sceglie il punto di vista che inghiotte la strip principale di Las Vegas, tutto il deserto ai margini delle immagini più diffuse della città, ma che ne rappresenta al contrario l’asse portante.
Nel cinema di Naderi l’annullamento della visione si manifesta quando questa non riesce a possedere i personaggi e si verifica una sostituzione per il desiderio stesso della visione con l’ossessione per i simulacri, oggetti materiali, e primo fra tutti il denaro come materia invisibile, trucco di una logica perversa.
La famiglia di Vegas sperimenta l’accecamento più radicale visto nel cinema del regista Iraniano in una concentrazione del racconto che è anche mutazione traumatica dello spazio.
La truffa che colpisce Eddie è principalmente un inganno dello sguardo, una fata morgana distruttiva che nell’apparente semplicità didascalica di un ‘racconto’ che procede da una storia ‘vera’ diventa assorbimento del set nell’orizzonte negativo del deserto.
Più dolorosa di qualsiasi visione sulla vita di un giocatore distrutta dalle luci dei casinò, quella di Naderi su Las Vegas diventa personale visione sullo spazio familiare come teatro di guerra.
Il giardino può essere conservato solamente a patto di operare lo sforzo di un’intelligenza connettiva che viene meno quando il desiderio e l’ossessione si sostituiscono allo sguardo sulle cose.
Vegas è probabilmente il film più doloroso e spietato di Amir Naderi, perché nella sua apparente chiusura distruttiva gli strati e i livelli sono molteplici; l’immagine della guerra, quella del confronto doloroso tra occidente e Medioriente, il punto di vista infantile che vede al di là del bene del male, il pieno e il vuoto del potere economico e ancora la ricerca del deserto come memoria morfologica del sottosuolo di qualsiasi organismo urbano.