Nell’ultimo film di Patrice Chereau presentato a Venezia 66 non si è del tutto sicuri sulla sostanza della persecuzione, a dispetto del racconto tout court e della geniale figura interpretata da Jean-Hugues Anglade, persecutore “soggettivo”, immagine mentale legata alla paura e al desiderio di Romain Duris, questa sembra attraversare tutti i volti di Persecution, filmati dal regista Francese con quell’aderenza a corpi e movimenti che è propria dei grandi cineasti dell’ambiguità.
In questa discesa negli inferi della coppia l’intimità si ancora a quella superficie fisica che rivela la separazione tra corpi e parola; questa è continuamente scagliata e negata dalle ossessioni psicosomatiche, dall’autismo di Duris e della Gainsbourg in modo da risultare come fonte di inesauribili falsificazioni. Il corpo racconta l’abisso dell’amore aprendo ferite, ribellandosi all’esistente, desiderando essere altrove, mentre il racconto della mente cerca di sistemare, organizzare le cose, operare con una sutura sull’equilibrio impossibile dei sentimenti.
Una rappresentazione cosi dura e anatomica sull’oscenità dei sentimenti fa venire in mente per motivi diversi il cinema della Breillat e quello di Jacques Doillon. Chereau riesce ad andare oltre riuscendo a mostrare l’indicibile con un equilibrio rarissimo, regalandoci una sofferta esperienza di cinema interiore, una rappresentazione dell’inferno visto per altre vie. L’ossessione di purezza e onnipotenza di Duris si scontra con l’evanescenza della Gainsbourg, due anime assenti l’una all’altra capaci di comunicare senza fratture nell’unico momento di scambio fisico filmato da Chereau con una verità che trasfigura i corpi e le espressioni dei volti come se fossero, al contrario della parola, l’unica risonanza mostrabile tra quelle in contatto con la propria essenza.
La persecuzione allora è uno stato di inadeguatezza, una conoscenza progressiva del se in termini di riappropriazione, come se il rifugio della coppia fosse un momento di oblio, un abomino che stacca il corpo dal contatto con la parte più scabrosa e vera, un momento di perdita e privazione. Nel lager degli affetti non resta che sfasciare, ammettere dolorosamente di non potercela fare, vedersi come irriconoscibili, mostrare il volto di una dipendenza che schiaccia i corpi al muro, raggiungere il più alto grado d’amore separandosi.
Jean Hugues Anglade è una figura estrema, un pezzo di anima strappata dal corpo, un’ecchimosi non riassorbita. Si introduce con la forza nell’appartamento che Duris sta ristrutturando e che abita provvisoriamente per lavoro. Il cantiere disadorno, la casa nel suo (dis)farsi è lo spazio dove vive, il nido dell’accoglienza svuotato da ogni calore e funzionalità; filmato da Chereau come uno spazio alieno e immerso nella luce livida e verdastra che attraversa tutto Persecution, fotografata da Yves Cape (a Venezia 66 anche per la fotografia di White Material, il film di Claire Denis in concorso). Jean Hugues Anglade pretende che quella casa di passaggio diventi sua, vuole viverla, ha amato sin dall’inizio la stupidità e quindi la purezza di Duris, incontrato fugacemente dall’uscita del metrò.
Di quello spazio Charlotte Gainsbourg sembra non conoscere niente, una disappartenenza che cessa nel momento in cui lo visita per la prima volta, avvicinamento e conoscenza che li sorprende vulnerabili e che spinge progressivamente verso la separazione.
Chereau lavora con una materia delicatissima ed apparentemente astratta, muovendosi tra spazi e personaggi con una vicinanza persecutoria senza lavorare su simboli e significanti; mostrando corpi, anime e ambienti in un processo inesorabile di dissezione.