Il best-seller di Paolo Giordano non costituisce materia letteraria facilmente trasponibile sul grande schermo, imperniato com’è sulla studio minuzioso e dal piglio quasi scientifico delle dinamiche caratteriali dei suoi protagonisti. Nei suoi precedenti lavori, Saverio Costanzo aveva però dimostrato di sapere penetrare in pochi rigorosi tocchi le psicologie dei propri personaggi, confezionando in particolare in In Memoria di Me un impeccabile ingranaggio di emersione emotiva. Nonostante questo, il passaggio del regista romano ad una più importante dimensione produttiva finisce per risolversi in un passo falso. come due numeri primi gemelli, Mattia ed Alice sono anime contigue ma separate all’infinito, attratti perché simili e per lo stesso motivo enormemente distanti, intrappolati entrambi nel cono d’ombra dei propri traumi infantili: la colpa della sparizione di una sorella handicappata per il primo, la zoppia causata da un incidente per gli per la seconda, con la responsabilità di due famiglie che li hanno pretesi adulti fin da bambini. L’intuizione sulla quale è quella di lasciar trasudare dalla pellicola l’inquietante e indicibile oscurità che rabbuia l’anima dei due protagonisti, trasformando una mutilata storia d’amore in un vero e proprio horror degli affetti, genere convocato in prima istanza attraverso le musiche del Morricone dell’Uccello dalle Piume di Cristallo e dell’eclettico metal-crooner Mike Patton. Lo sguardo di Costanzo si avventura in corridoi illuminati da inquietudini Lynchane o Kubrickiane, in frementi passeggiate metaforiche nell’inconscio, nella narrazione di terrificanti fiabe da parte di ancor più terrificanti clown. Ma nell’intento di esprimere il profondo spavento verso la vita di ognuno dei protagonisti, Costanzo abbandona lo sviluppo del loro rapporto, ridotto ad una semplice vicinanza di autismi che paiono non comunicare nemmeno tra loro e minando così le fondamenta di una vicenda incentrata sulla loro interdipendenza impossibile. L’insistenza sul pedante e prevedibile rapporto tra l’Alice adolescente e la ninfetta Viola, ingombra il narrativo spazio vitale della relazione con Mattia, rinchiusa in un’ellissi i cui non detti sottraggono forza agli episodi raccontati. Allo stesso modo, nel finale vengono inseriti i frettolosi moncherini del marito di Alice e della presunta sorella, per concentrarsi su un posticcio lieto fine difficilmente giustificabile nell’economia delle due ore precedenti. Pur conservando una notevole carica anticonvenzionale, la direzione di Costanzo poggia tutti gli elementi del film nell’ottica dell’evocazione empatoica, tralasciando però di indirizzare nello stesso verso il fondamentale puntello della sceneggiatura.