Sotto alla classicità dell’impianto narrativo e alla pomposa solennità del respiro visivo, Noi credevamo nasconde un tagliente animo rivoluzionario e anticonvenzionale, che ne fanno con tutta probabilità un’opera che continuerà a parlarci per alcuni decenni. Nel suo fluviale affresco sul doloroso travaglio che ha partorito l’Unità d’Italia, Martone sceglie di affidarsi ad un percorso antiretorico affezionato a fallimenti e vicoli ciechi piuttosto che su protagonisti e battaglie che si sono guadagnati nomi di corsi e piazze in ogni cittadina italiana. Il Mazzini di Servillo è un profeta isolato e dolente, Garibaldi niente più che un’ombra ispiratrice stagliata su una rupe, Cavour e i Savoia occupano un fuoricampo distante e in altre faccende affancendato. Noi credevamo abbraccia le vicende di tre outsider del Risorgimento, due nobili cilentani e un amico popolano compagno d’utopia (ispirati a figure realmente esistite), tutti e tre titolari di un capitolo personale nel film, tutti e tre in un modo o nell’altro fagocitati un ingranaggio storico alimentato da compromessi e giochi di poteri costituiti più che da volenterosi impeti romantici. Le speranze di cucire i brandelli di un territorio nel complesso coerente di una Nazione, si sfilacciano nel gramelot di lingue e dialetti dei suoi occupanti, impegnati a collezionare complotti, fratricidi e diserzioni e dispersi tra assemblee ed azioni rivoluzionarie sparse per l’Europa e fuorviate dalle effettive urgenze italiane. I ranghi di miseria e nobiltà rifiutano di compattarsi persino nella comune tragedia delle prigioni borboniche, mentre i piani alti del parlamento si riempiranno del pragmatismo elitario di Crispi e rimarranno orfani e svuotati di genuini afflati patriottici, come quelli di Cristina di Belgiojoso, amaramente confinati in una sterile dimensione teorica e salottiera. Nel contesto formale che ricorda l’approccio didascalico e pittorico del Rossellini televisivo, il regista partenopeo non rinuncia ad inserire sottili e potentissime dirompenze cronologiche: intonaci cadenti, scale metalliche e ruderi cementizi squarciano la ricostruzione storica per suggerirci che le ferite di una nazione nata prematura siano tuttora aperte, alla vigilia del suo centocinquantesimo compleanno. Popolato più da briganti che da eroi, documento crepuscolare di un passato ancora in corso, Noi credevamo è il maestoso sussidiario illustrato di un’Italia nata reduce e sconfitta.