L’ultimo film di Miike Takashi presentato in concorso a Venezia 67 non è un film spaccato in due, come ci è capitato di leggere, la disseminazione Miikiana di cui avevamo parlato anche a proposito di Sukiyaki Western Django macchia di sangue la tradizione in una concentrazione allucinata che si sedimenta sin dai primi bellissimi venti minuti; identificarli semplicemente come una stilizzazione di tipo “classico” ci sembra un taglio parziale su quest’immagine che concentra gli anni sessanta e brandelli di tradizione – sin dal minimalismo grafico del titolo – collocando gli orrori Miikiani della carne in una posizione ellittica, un fuori campo che non fa certamente meno male e che introduce lo sdoppiamento di una visione etica che attraverserà tutto il film. Se il Django di Miike esiste attraverso la moltiplicazione dei corpi, in una forma di nomadismo che diventa smembramento della soggettiva cosi da riprodurre le caratteristiche dell’eroe per metastasi, in 13 assassins questa proliferazione è in carica come una bomba ad orologeria pronta ad esplodere nella seconda parte del film in una rilettura estrema del jidai-geki dove il lurido brulicare dell’umanità Miikiana, quella che fa da contorno a un film come Izo o che popola molti degli underworld del regista giapponese, diventa la turbolenta massa combattente che sconquassa il set in una distruzione continua dello spazio scenico che crolla letteralmente sul film, divorandoselo. E ancora, in un contesto che stratifica storia e cultura, il codice del samurai nelle mani di Miike diventa una lotta crepuscolare tra materia e antimateria, la stessa che inonda le battaglie di Dead or Alive o la rigenerazione in un’altra carne che ci ricordiamo cosi traumatica nel parto mostruoso di Gozu. Miike trasferisce la sua personale visione sul cinema e sul mondo sulla superficie di un’immagine dall’apparente compostezza tradizionale tormentando e ferendo a morte il set e trasponendo su un campo di battaglia il passaggio irrisolto tra carne e mente.