Attenberg è il secondo lungometraggio della regista di origini Greche ma si porta dentro tutta l’esperienza acquisita a fianco di Yorgos Lanthimos per il quale ha prodotto Kinetta e il più recente Kynodontas, due film misteriosi e non allo stesso livello, per svariate ragioni, una delle quali è l’emersione di una possibile onda di cinema nuovo che scaturisce dall’abisso di uno stato, con una forza inventiva del linguaggio che il nostro cinema “della crisi” forse potrebbe avvistare solo in un raro sogno, e che nell’esperienza di Lanthimos forse si sta avviando ad una normatività pericolosa, con il rischio di perdere la furia performativa e creativa degli esordi.
In un certo senso il modo di filmare lo spazio e la libertà performativa degli attori, tra gioco e teatro antico, rende la superficie del film della Tsangari molto vicina al cinema del compare e in particolare alle arene aperte di Kinetta, con il quale condivide una magia selvaggia e arcaica che Lanthimos ha in parte sostituito con un rigore formale più algido nella sua seconda prova come regista e soprattutto con una ricchezza soffocante di segni che Attenberg azzera in un orizzonte visivo apparentemente neutro e di un nitore accecante.
Sembra che la Tsangari, rispetto al multiverso di Lanthimos, sia maggiormente interessata a tracciare quei segni con la sola libertà di movimento delle performance, tanto da far sembrare la relazione tra corpi e sfondo, scaturita dai primi. La tridimensionalità, che è fortemente presente nel film della Tsangari, risiede in una crescita progressiva del film, che monta proprio nell’accumulo di contatti, scambi, movimenti, trasmutazione dall’animale al sensuale, come piace dire ad Athina. Attenberg sfrutta la distanza dei piani fissi per consentire ai corpi, anche nel modo più diretto e sporco, di interpretare e modificare lo spazio. E’ uno strano e ossessivo occhio entomologico quello della Tsangari, a tratti cinico e spietato, ma così attento a lavorare sugli attori come fossero animali alla ricerca di un’apertura, da trasformarsi in uno sguardo commosso e commovente senza il diaframma e la presunzione dell’autorità morale.
La stessa Tsangari ha parlato più volte del suo interesse per la tragedia antica, del tentativo di avvicinarsi al balletto, della libertà di gestire il frame concessa ai suoi attori; insieme di pratiche che si rovesciano sul suo cinema con una forza creativa che riesce a tessere l’ordito di una partitura musicale fatta di movimento.
Marina ascolta solo le canzoni dei Suicide, insieme a Tous Les Garçons Et Les Filles di Françoise Hardy che chiude il film con uno sguardo doloroso sulla vita di un’adolescente. Le parole al limite della decifrabilità di Alan Vega sono l’unico commento sonoro di Attenberg usate in funzione potentemente fisica al punto da farsi esse stesse corpo; non una colonna sonora e neanche un procedimento decostruttivo tra suono e immagine di origine Godardiana.
Ci sembra che la Tsangari lavori su una connessione di tipo lirico ed espressivo che possiede completamente il corpo dei suoi performer; la danza epilettica di Marina davanti al letto del padre, malato terminale, è un luminoso e bellissimo esempio del transito tra musica ballo e corpo, in un numero di espressione purissima.
La Tsangari chiama in causa Cassavetes, e ci sembra probabilmente uno dei riferimenti più pertinenti anche se lo spazio che si muove e si s-fascia insieme agli attori in Attenberg è al contrario fissato al quadro. Un’arena dove i corpi provano a scopare, si assaggiano, si muovono proprio come nei documentari di Sir David Attenborough che Marina ama guardare insieme all’amica Bella e di cui la Tsangari ci mostra un bellissimo estratto, con Sir David che osserva il comportamento degli Oranghi confuso tra di loro.
Attenberg è’ quindi un film gelido, cinico, distante, mortuario solamente in parte, ma sembra il rovesciamento di Kynodontas; nel film diretto da Yorgos Lanthimos l’entomologia di una famiglia era chiusa nei confini di una nazione costretta sadicamente in uno spazio chiuso, capace di uscirne solo per effrazione, violando il recinto dove era consentito ai corpi di agire e lasciando dietro il percorso paterno.
La gabbia di Attenberg si apre in modo più consapevole alla libertà dei corpi, montando un progressivo senso di apertura affettiva nella relazione tra Maria e il padre; un percorso verso la morte che minaccia tutto il film ma che allo stesso tempo si libera nella sovrapposizione tra l’amore e questa ricerca di se nella postura, nella presenza del corpo, nel fonema e nel verbo che si fa corpo, nei suoni, nelle parole, nelle ripetizioni che un gruppo splendido di attori scagliano in tutta la loro consistenza fisica.
Una vitalità disperata ma innegabile che da un’esperienza di isolamento dalla realtà diventa possibilità affettiva nelle schermaglie ludiche tra padre e figlia.
Tracce di presenza anche nella cenere.