Col film d’apertura del Concorso di Venezia 67, Darren Aronofsky dimostra di aver ulteriormente affilato gli strumenti del suo discorso autoriale e concede fin da subito serio materiale di riflessione alla giuria di Quentin Tarantino. In Black Swan, la fragile Nina ottiene il ruolo principale nella nuova versione del Lago dei Cigni in programma al balletto di New York, che prevede che la prima ballerina si divida tra l’interpretazione sia del cigno bianco che del cigno nero. Ma la pressione emotiva e la sopita smania di trasgredire al rigore imposto da una madre apprensiva finiranno per spingerla a ricalcare la tragica fine del proprio personaggio. Natalie Portman presta la sua preparazione giovanile nel balletto ad un personaggio sottoposto ad una montagna russa di sdoppiamenti e metamorfosi che riecheggiano le protagoniste di Polanski, oltreché i temi cari ad autori come Lynch e Cronenberg. Un’acuminata parabola di autodistruzione che si impenna a perdifiato in lungo climax finale, tratto distintivo del giovane autore americano fin dai primi passi di Pi Greco e Requiem for a Dream, con i quali condivide anche il ricorso ad una disturbante vena onirica e orrorifica. Ma la parentela più evidente è senza dubbio quella con The Wrestler: la vicenda del personaggio pedinato dalla macchina da presa sovrapposizione tra realtà e messa in scena, riflessa nella complementare dicotomia tra angustie dell’animo e traumi della carne. Black Swan schiude uno sguardo impudico su di un universo artistico in cui la violenza della fatica e del sacrificio si abbatte sui corpi delle ballerine con cruenza affatto minore che nel wrestling: schiene graffiate, unghie sanguinolente, caviglie torte, giunture scricchiolanti e gambe spezzate adombrano il fascino aggraziato di visi, figure e coreografie, come il desiderio si insinua nell’impostato candore di Nina. A questo proposito, tutti i settori tecnici sono diretti in uno sforzo organico a rimarcare il tema visivo dominante: fotografia, trucco, scenografie e costumi costringono lo spettatore in una dimensione priva di sfumature in cui gli onnipresenti bianco e nero si intrecciano, si giustappongono, si compenetrano a vicenda senza mai digradare uno nell’altro. Allo stesso modo il sonoro affianca sussulti horror ai contrappunti lirici dell’opera di Ciaikovskij. Purezza e perversione, caos e controllo, sono concepiti solo in dialettico conflitto, strappi e lacerazioni lungo il confine epidermico tra l’uno e l’altro (e sulla martoriata pelle della protagonista). Esponenzialmente amplificato è anche il tema del doppio, ribadito con cocciuta regolarità da un infinito ventaglio di specchi e di riflessi. Il cinema di Aronofsky, non a caso, affonda le radici del proprio valore nel perseguimento delle estreme conseguenze della rappresentazione visiva e narrativa, prevedibile nelle sue conclusioni ma proprio per questo crudelmente efficace nel dipanarsi del suo sviluppo.