Kelly Reichardt realizza il suo Searchers e disinnesca davvero più storie Americane (non solo del cinema) con una potenza visionaria e politica che va oltre la semplice re-invenzione e con un’intensità molto rara, soprattutto nel cinema statunitense contemporaneo, filmando ancora una volta il deserto, luogo di transito per eccellenza, orizzonte dell’immagine dove le visioni diventano segni ricchi di possibilità.
Il viaggio di Stephen H. L. Meek alla guida di un gruppo di carovane nel percorso da Fort Laramie fino a Williamette Valley è una ricerca personale della Reichardt sulle radici dell’Oregon che assume un valore antropologico opposto alla percezione nichilista di Martin Scorsese sulle origini di uno stato democratico, ma quello che ci è sembrato sorprendente in Meek’s Cutoff e sempre più raro nel cinema contemporaneo, cosi votato ad un ripiegamento su se stesso e sulle proprie immagini nella camera ardente preposta per un culto cannibale, è lo slittamento impercettibile di un genere nella sua desertificazione; una sfida difficile in un contesto come quello Veneziano dove la scrittura come possibilità di riflessione combinatoria, di scambio attivo fuori dallo schermo, è fisiologicamente bandita da un “giornalismo” bulimico proiettato al consumo di visioni e alla produzione di concetti da consumare in fretta.
Niente da stupirsi se dopo la proiezione stampa di Meek’s Cutoff gli applausi in sala erano appena percettibili e se Machete di Rodriguez ha generato una partecipazione degna degli screening familiari e rassicuranti del Rocky Horror Picture Show; un rito collettivo condiviso che senza troppi dubbi ci racconta quanto sia perverso il passaggio di energie di un immaginario che non avremmo mai potuto pensare al potere.
Meek’s Cutoff è davvero un esempio fulgido di cinema della differenza, nel senso De Lauretiisiano, dove la citazione perde le sue tracce e si incarna in un occhio nuovo; altra definizione di immagine politica, a meno di non invischiarsi come allocchi nel simulacro della rivoluzione orchestrata da Rodriguez, non mi viene in mente. Non si può far altro che trattenere il fiato e forse piangere dopo aver visto il walkabout del nativo attraverso l’apertura da dove Emily Tetherow (una straordinaria Michelle Williams) lo osserva, un’immagine vista certamente mille volte attraverso le lenzuola forate ne i Cancelli del Cielo di Cimino o puntata su più noti orizzonti Fordiani, ma che nel film della Reichardt trapassa l’universo autoctono e soffocante del Cinema e racconta la fondazione di uno stato anche come rifondazione dello sguardo; è un cinema che lavora radicalmente sulla persistenza dei segni, sulla presenza fisica delle azioni quotidiane in lotta contro l’assorbimento di un orizzonte piatto.
Una sfida non da poco quella di realizzare un film che infesta il deserto di segni, tanti quanti quelli visti dal Simon Bunueliano dove all’epifania dell’immagine come fata morgana si sostituisce la concretezza del lavoro, la sofferenza fisica, la resistenza dei corpi all’idea della morte, è una visione che non ci inganna perchè è intimamente visionaria e allo stesso tempo anti-visiva; a tratti arida e vicina alla cecità, si tratta di una delle rappresentazioni più intense viste sullo schermo tra quelle che attraversano il deserto, al posto della visione mentale prende il posto la persistenza di un luogo possibile e laico, una versione positiva ma non meno dolorosa del silenzio Hellmaniano, il simulacro del peccato originario che all’ombra dell’unico albero trovato in mezzo al niente perde completamente di senso presagendo un nuovo mondo attraverso lo sguardo di una donna.