Il Cessna che d’improvviso impatta sulla superficie di un fiume immerso nella quiete rimarrà una delle immagini più belle viste a Venezia 67; lascia senza fiato l’ultimo film di Monte Hellman, continuamente sconnessa da un occhio onniscente ci è sembrata un’opera straordinaria e per certi versi dall’avvitamento quasi Lynchiano in questa resa consapevole del Cinema alla complessità della vita, perchè davvero non riusciamo a identificare Road To Nowhere come un film nel film o come un gioco semplicemente metanarrativo, è al contrario la metastasi della vita nel cinema che rende i suoi confini labili, incerti, complessi, sin dai titoli di testa che si rivelano doppi, tripli e che pongono la firma di Hellman solamente alla fine, in una posizione coraggiosamente marginale.
Un film di Mitchell Haven; è il primo livello che disorienta molta della stampa pagata per fare un mestiere, alcuni accendono una pila e impazziti cercano di capire se hanno sbagliato sala. Hellman gioca con il testo e ne moltiplica gli schermi, a cominciare dal monitor di un computer, prima finestra su una realtà che ne dischiuderà moltissime, strade puntate verso zone cieche dell’immagine, sconnessioni viste e rivissute da un occhio esterno a quello soggettivo.
Hellman dissemina il film di agganci, frasi, immagini che alludono potentemente alla perdita del controllo. Haven girerà un film sul mistero di Velma Duran stimolato dalle ricerche di una Blogger, lo farà con una semplicissima 5d della Canon e con alcuni dispositivi della Nikon, non è preoccupato per la differenza di risoluzione, non è certo interessato a catturare ogni singolo capello di Velma.
Dominique Swain che parla di alterazione dei fatti nel processo di scrittura del suo blog, la parola “noir” che inorridisce gli sceneggiatori, l’aderenza e la paura di riconoscersi in una bulimica cinefilia: ” – quanti film hai visto? – non chiedere mai a un regista quanti film ha visto, non fa piacere ammettere l’ossessione per i sogni degli altri”.
Testi che si sovrappongono allora, come lo sguardo di Shannyn Sossamon puntato verso un vuoto che solo apparentemente sembra lo stesso tunnel o la stessa superficie acquatica. Road to nowhere allora è un film sulla fede, sulla verità assediata dagli obiettivi fotografici che richiede semplicemente fiducia in una flagranza che la brutalità dei fatti non riesce a rivelare, contraddetti e minacciati come sono dalla moltiplicazione degli sguardi; ecco allora che il tentativo di ricostruire il plot è possibile solo attraverso una visione interstiziale.
Sono davvero le increspature delle immagini a cui Hellman punta con un montaggio disgiuntivo prodigioso, sono le tracce residuali ad assumere valore cognitivo; gli occhi di Shannyn Sossamon che incontrano nel vuoto quelli di Teresa Gimpera non solo durante la visione del film di Victor Erice, ma anche fuori, in una sovrapposizione impressionante dello stesso orizzonte svuotato; la reiterazione come un nuovo modo di vedere che d’improvviso diventa transfert e confonde tutte le tracce.
A un certo punto tutti i volti e i corpi di Road to Nowhere sono come isolati nel loro spicchio temporale, la loro sofferenza sembra dibattersi per uscire dalla tirannia di una “storia” che ci racconta sempre meno e che trova elementi di verità nel frammento, nella potenza generatrice di una singola sequenza, in quelle immagini riprodotte dalla memoria attraverso un nuovo diaframma che ce le mostra come schegge di un mondo inedito. Vengono per forza in mente altre strade che nel loop inesorabile del tempo cinema a un certo punto aprono una ferita attraverso la quale è possibile vedersi altrove; perchè questa direzione verso il nulla, percorso eminentemente Hellmaniano, ci è anche sembrata la direzione più stimolante di questa edizione della mostra del Cinema di Venezia, cosi aperta e coraggiosa nel farsi contagiare da immagini del margine e della differenza. Un film di Monte Hellman?