Lo sguardo di Wang Bing sembra concretizzare il desiderio urlato da Chantal Akerman nel film di Jose Luis Guerin presentato nella sezione Orizzonti ovvero quello della doppia anima dell’immagine cinematografica. The Ditch filma lo spazio di una deportazione con una prossimità sorprendente ai luoghi della Storia cosi da renderli un pezzo inquietante del presente; la cina degli anni ’50 e il confino forzato di migliaia di cittadini considerati dissidenti per reati d’opinione in un area del deserto del Gobi non può non parlarci della cina di Oggi, quella che nei film di Jia Zhangke diventa immagine su un orizzonte che traumaticamente scompare come per opera di un potere immateriale.
Del resto Wang Bing ha dovuto girare in condizioni di segretezza totale, isolando se stesso e tutta la troupe in assoluta sospensione penetrando lo spazio chiuso del fossato con una vicinanza materiale alle condizioni morfologiche del luogo, in assenza di luci artificiali attraversando il buio e la polvere senza timore di raggiungere il limite di visibilità dell’immagine.
E’ un azzeramento che con una semplificazione molto approssimativa potremmo chiamare di tipo documentaristico, ma che in realtà, se documenta qualcosa lo fa cercando disperatamente l’essenza anche terribile delle cose, il vomito di un esiliato che diventa cibo per un altro, la malattia filmata da vicino attraverso il gonfiore sui volti dei dissidenti, l’immagine che punta sempre di più alla claustrofobia, i luoghi del potere che sembrano assumere consistenza atemporale, tanto sono asfittici e chiusi nella loro impenetrabilità dall’esterno, il pianto straziante di una donna giunta fino al campo di Jiabiangou per cercare il marito; sembra arrivare dal nulla, come un’apparizione dello spirito in un luogo dove non ci sono più riferimenti spaziali e temporali, tranne un fuori e un dentro, un sopra e un sotto dove la morte preesiste.