La tormentata lavorazione di Sílení (Lunacy), progetto concepito da Svankmajer sin dagli anni ’70 e uscito nel 2005, culmina con la morte di Eva Švankmajerová, moglie del grande regista-animatore Ceco e autrice di alcune delle sequenze introduttive più belle dei suoi film. Una suggestione plausibile quella di considerare la forza terribile e iconoclasta di Lunacy come una conseguenza reattiva di eventi personali, di fatto non è così, quel film includeva il complesso immaginario di una vita schiacciata tra due regimi, dove tra coercizione e mercato pulsionale il crudele surrealismo di Svankmajer disegnava la desacralizzazione del mondo tra carne, profanazioni blasfeme, mutazioni terribili e un pessimismo senza requie che si traduceva in una fantasia infernale tra le più belle e oltraggiose realizzate in quasi cinquant’anni di carriera e di sofferenze politiche.
Prezít svuj zivot (teorie a praxe) sembra invece quell’immagine non riconciliata con l’ordine, vista dall’altra parte dello specchio, una malinconica e commovente reverie realizzata quasi interamente con l’utilizzo di immagini fotografiche cosi da spostare il centro delle tecniche stop motion su un territorio legato alla memoria e alla psiche. Il percorso psicanalitico è uno dei bersagli di questo tenero e disperato tentativo di conservare l’ambiguità delle proprie pene introdotto, anche nella comunicazione stampa, dal volto di Jan spaccato in due come una pesca cosi da rivelare lo spauracchio della morte. Sfruttando un noto assunto di Gerard De Nerval ( i nostri sogni sono come una seconda vita) Eugene, Eugenia, figlio, madre, amante sono i livelli sui quali lavora Svankmajer per generare una moltiplicazione di relazioni tra desiderio e abisso che da sempre caratterizzano il suo cinema.
L’incesto, le pulsioni più pericolose tra morte e perversione, le escrescenze materiche della carne, la dimensione del dialogo e quella dell’anima sono elementi di sopravvivenza scagliati contro i tentativi di neutralizzazione dei processi analitici, tanto che l’ultimo dei regimi contro i quali il buon Jan sembra colpire senza pietà, è proprio quello della psicanalisi nella sua evoluzione storica sulla quale Svankmajer opera degli spietati rovesciamenti filosofici da antologia. Ma quello che maggiormente commuove è questa dimensione del ricordo che influenza il suo stesso cinema, che pur non rinunciando agli oggetti, alla materia, ai grumi organici, li riduce di molto spostando quasi tutta la dimensione percettiva del film su uno sfondo bidimensionale; ricordo e memoria anche Storica del lungo percorso dell’animazione Ceca e di come questa ha influenzato i percorsi apolidi di quella europea, ma soprattutto l’intima ricchezza di un uomo di ottant’anni che si vede rinascere come un mostruoso pigmeo in una vasca da bagno rossa di sangue, quello che proviene dai polsi tagliati della madre-amante-moglie, e che per sopravvivere re-impara a nuotare.