Il cinema di Pasquale Scimeca è incessantemente e radicalmente epirogenetico, isostatico, muove il racconto come le terre colpite dai fenomeni di bradisismo facendo emergere tradizioni sommerse, lembi di cultura dimenticata, scuotendo l’immagine della storia con una forza tale da affidarne la lettura e l’interpretazione a quelle sedimentazioni che si annidano in tutte le manifestazioni del linguaggio popolare anche quelle più insospettabili; è un canta-storie e non la Storia ufficiale che osserva l’orrore antropologico della Mafia in Placido Rizzotto; è ancora un vecchio narratore di proverbi che trasmette la sua saggezza ai nipoti attraverso i suoni della loro cultura. Con una scrittura portentosa, frutto della ricerca di Scimeca insieme a Nennella Buonaiuto e con il sostegno di Tonino Guerra, Malavoglia osserva la Sicilia da punti di vista che portano il racconto in una dimensione non riconciliata con le forme narrative tradizionali, ma allo stesso tempo recuperando la dimensione della tragedia classica senza paura di far zoppicare la forma, trasmutandola in corpo e sangue, accettando anche le asperità e le “brutture” di un linguaggio che si valuta solo a partire dalla sua vicinanza o lontananza con la verità, aderendo in modo commovente ai corpi e ai volti degli attori. Scimeca non cerca i Vinti semplicemente nel calvario degli emigranti che approdano in Italia via mare, ma rintraccia nei volti e nei residui del linguaggio arcaico l’unica possibilità di soppravvivenza politica per la cultura contemporanea, spazzata via da un’apocalisse terribile; crediamo non sia un caso in questo senso, la concentrazione familistica che Scimeca opera nella sua rilettura del testo Verghiano, non è semplicemente l’attualizzazione che colpisce quando la sua concretezza storica attuata lateralmente, marginalizzando il testo in un racconto affettivo, generazionale, intimo e amoroso che ha le caratteristiche della fabula popolare svuotata dalla menzogna epica e ricondotta alla durezza della verità tragica; in questo senso Malavoglia è solamente in parte un lavoro Verghiano, perchè l’indagine Verista per il cinema complesso e polisoggettivo di Scimeca è sicuramente una forma ridotta e insufficiente; il suo sguardo si avvicina a quell’aderenza “al tamburo battente” che vediamo all’inizio e alla fine ma che invece di chiudere il film , lo scompagina in un esempio davvero straordinario di cinema soggettivo, libero e indiretto come strumento in grado di osservare il mondo.