Nel 1826 Joseph Niepce fece emergere da una rudimentale camera oscura quella che è considerata la prima fotografia della storia, una vista dal suo studio di Le Gras scolpita dalla luce e presto dissolta dall’instabilità dei primi materiali fotosensibili. Incorniciata in un prologo adeguatamente virato in un contrastatissimo bianco e nero, quella stessa immagine apre l’ambizioso progetto di Kossakovsky, a misurare la distanza abissale tra quel primo bagliore di realtà catturata e l’imponente e acrobatico panopticon eretto per questo ¡Vivan las Antipodas! Una casupola Argentina a presidio di un ponte fluviale e la metropoli taiwanese; una fattoria sul lago Baikal e un allevamento ovino sulle Ande Cilene; una piccola comunità su un vulcano Haiwaiano e un villaggio nella savana del Botswana; una spiaggia neozelandese e un parco montano in Spagna. Quattro coppie di antipodi geografici compresse nello stesso film, nella stessa sequenza, nella stessa inquadratura per mettere in comunicazione vita, morte, rapporti di amicizia, amore, parentela, commercio, mostrando il conflitto e la mutua collaborazione tra civiltà e natura, dal microscopico al gigantesco, dall’incontaminato al sovrappopolato. Vedere tutto, insomma, simultaneamente e nel modo più splendente e nitido possibile concesso dalla tecnologia attuale: nato come operatore e montatore, Kossakovsky imbraccia una RED e si avventura in un’impresa titanica in giro per il globo, regalando inquadrature e soluzioni di montaggio memorabili, mappando, capovolgendo e inerpicando il nostro sguardo in una serie di richiami metaforici e visivi che hanno il pregio e il contemporaneo difetto di tenere miracolosamente assieme l’equilibristico impianto programmatico. Nell’affascinante abbuffata scopica diventa complicato mantenere il peso di un discorso globalista e omnicomprensivo, e si sceglie di correre a testa alta il rischio di non iniettare sufficiente sostanza sotto la superficie di questa meravigliosa collezione di cartoline impossibili. La regia ci abbaglia e si lascia abbagliare da paesaggi magniloquenti, apertamente poco interessata a giustificare in un macchinario tanto geometrico il didascalico fil-rouge dei due argentini o anche la scelta di localizzare la spersonalizzazione dell’essere umano nella sola Cina. Molti, a fronte del fascinoso viaggio compiuto, non avranno problemi a perdonare le innegabili sbavature. A maggior ragione, sorprende scoprire in conferenza stampa che il costo di un’impresa di questo tipo si aggiri “solo” attorno al milione e mezzo di euro, suddivisi in ragionevoli quote da tutto il mondo, per un progetto di coproduzione internazionale perfettamente in linea con quel che si è cercato di mostrare sullo schermo.