Appartenente alla schiera dei talentuosi registi del nuovo cinema israeliano (fra cui si annoverano personaggi come Joseph Cedar e Samuel Maoz), Eran Kolirin presenta in concorso al Festival del Cinema di Venezia “Hahithalfut” (o, come recita il più facilmente pronunciabile titolo internazionale, “The exchange”), secondo lungometraggio che segue, a distanza di quattro anni, “The Band’s visit”, all’epoca inserito nel cartellone cannense. “Serious man” dall’aria vagamente impacciata, Oded, come il professore di coeniana memoria, si destreggia fra le lezioni di fisica all’università e la routine della vita familiare con la giovane moglie Tami, architetto alla ricerca del primo impiego. Stavolta però non sono una serie di implacabili coincidenze e incidenti vari a fare deviare dall’asse l’esistenza quieta e ovattata del protagonista, ma un sentimento di estraneità che si insinua improvvisamente nella vita di un uomo qualunque, innalzando una barriera invisibile fra Oded e il mondo apparentemente sereno degli affetti e delle piccole cose. Costretto da una forza invincibile ad osservare dall’esterno, con sguardo incredulo e trasognato, la banalità di gesti che si ripropongono ogni giorno uguali a se stessi, il protagonista finirà per rifugiarsi in un surreale e inaccessibile non-luogo, che assume le temporanee fattezze di uno spoglio scantinato-bunker. Degno compagno di questo viaggio dell’alienazione è Yoav, un vicino di casa che si diletta a lanciare insulti di ogni genere in direzione di appartamenti vuoti, mobili e elettrodomestici. È attraverso gli oggetti che fluisce il nostro rapporto con il mondo, mentre l’esistenza si riproduce nei propri schemi consolidati e il sentimento d’angoscia che ognuno di noi talvolta prova nella sensazione di “guardarsi vivere” ci lambisce di continuo, pur restando quasi sempre latente. Come un personaggio pirandelliano, Oded scoperchia per un istante il vaso, senza più riuscire a reinserirsi nelle pieghe preformate di una quotidianità umana e professionale che scolora, perdendo di ogni consistenza, a partire dalla sensazione che si prova quando si “torna a casa da scuola perchè si è malati e la casa sembra diversa”. Per raccontare i riavvolgimenti dell’animo di Oded, Kolirin evita i toni cupi, preferendo un registro più lieve, che scivola perfino nel comico e riesce a strappare qualche sorriso, senza però che l’amalgama risulti del tutto convincente o lasci dietro di sé poco più che una suggestione passeggera.