Si cominciano a registrare anche sul grande schermo i primi mutamenti di sensibilità dopo la catastrofe che ha colpito il Giappone, l’11 marzo scorso. Timore di radiazioni, gente sfuggita allo tsunami che vive in tende o baracche, lunghe angosciose sequenze con paesaggi da day after, tentativi di trovare un appiglio per darsi coraggio e reagire. E’ quel che si vede in Himizu (ispirato al famoso manga di Furuja Minoru) di Sono Sion, finalmente in concorso, dopo gli ottimi esiti raggiunti l’anno scorso con il notevole Cold Fish, nella sezione Orizzonti. L’avanzamento per accumulo e l’esasperazione grottesca della violenza, tipici del regista, qui sono inscritti in uno scenario culturale post tsunami e post Fukushima.
E’ come se Sono mettesse in stretto rapporto dialettico gli strumenti consueti della sua aspra e radicale critica sociale con un’ombra apocalittica incombente: ogni violenta frattura psicologica dei personaggi è commentata da inquietanti sonorità sismiche come se il terremoto fosse penetrato sin dentro le circonvoluzioni cerebrali del popolo giapponese. Lo studente Yuichi Sumida, non desidera nient’altro che diventare un uomo comune, con una vita «normale»: un po’ per reazione alla balorda e drammatica situazione famigliare in cui si trova, un po’ per un’inconfessata voglia di omologazione. Alcuni eventi drammatici incrineranno il suo già precario equilibrio psichico. L’aspirazione alla «quieta mediocrità» di Sumida, si ribalta in un malato ed oscuro proposito. Non ci sta la stramba compagna di classe Chazawa, che lo pressa a distanza ravvicinata, cercando di stimolarlo a costruirsi un sogno vero, a progettare un nuovo futuro.
Alla baraccopoli dove vive il ragazzo, s’incrociano vari strati di umanità, dai premurosi vecchietti, uno dei quali lo tirerà fuori dai pasticci con un atto di generosità estrema, agli yakuza che gli chiedono conto, a suon di pugni e calci, dei debiti collezionati da suo padre. Compiendo un viaggio fra le superfici materiche del fango e della sporcizia, Sono attraversa varie tematiche: le follie tra le mura domestiche, con genitori che malmenano, abbandonano, o addirittura preparano con cura il cappio ai propri figli, ritenendo quest’ultimi l’origine della loro infelicità, la paranoia omicida di persone alla deriva che vogliono depurare il mondo dai malvagi.
Ma soprattutto il confronto tra chi di sogni non ne ha mai avuti, o li ha perduti, e chi invece non smette di crederci mai, oltre ogni disgrazia. E così, una sghemba catapecchia, per metà immersa nell’acqua, diventa metafora dell’intero Giappone: un ragazzo che avanza verso di essa provando su di sé la roulette russa con una Colt, l’immagine di una grande paura verso il futuro. Tutto ciò potrebbe far pensare ad una tesi di irrecuperabile pessimismo, ma non è così perché la vivacità di Chazawa e le rocambolesche peripezie di un vecchietto che rischia le pelle in nome delle generazioni future, dimostrano l’urgenza da parte di Sono, di un contrappunto di speranza al profondo dolore che percorre la pellicola. Himizu, è un requiem per un sogno da middle class che parla della necessità di altri tipi di sogni, di più ampio respiro.