In una Mostra del Cinema popolata di tendenze catastrofiste (si veda “4:44 Last day on Earth”, di Abel Ferrara, che filma il trionfo del buco dell’ozono, con Al Gore in sottofondo) e di robot dal volto umano (controllare alla voce “Eva” di Kike Mallo, Fuori Concorso, sorta di “Blade Runner” in salsa catalana, in cui affetti e fusibili si scambiano con pericolosa facilità), Gipi, all’anagrafe Gian Alfonso Pacinotti, sceglie la chiave dell’ironia per raccontare la sua personalissima invasione degli ultracorpi, o meglio la lunga attesa che forse la precede, in un clima da grottesco ultimatum alla terra. Tratto dalla graphic novel “Nessuno si farà del male” di Giacomo Monti, “L’ultimo terrestre” si apre sulle note radiofoniche della “Zanzara”, dove il noto giornalista Giuseppe Cruciali, qui in perfetto stile Orson Welles, sta interrogando gli ascoltatori per sondare gli umori italici nei giorni febbrili che precedono l’ormai imminente arrivo degli alieni. Mentre Cruciani lancia il suo proverbiale “ma che significa? Ma lei sta bene?” alla volta dell’ospite di turno (preoccupato che i nuovi venuti portino scompiglio nel mercato del calcio nazionale), inscatolato nella sua automobile, un ometto dal volto assorto perlustra gli annunci su un giornale spiegazzato, alla ricerca di qualche profferta d’amore più o meno disinteressata. Inizia così il lungometraggio di esordio di Pacinotti, fumettista di fama europea (collaboratore di “Repubblica” e “Internazionale” e autore di numerose graphic novel e cortometraggi), che sceglie un’opera scritta da altri per raccontare il nostro mondo sospeso fra piccole e grandi meschinità, in una galleria dell’alienazione in cui i veri extraterrestri sembrano quegli individui surrogati che rappresentano ormai il paesaggio costante del belpaese. Anziani smaniosi, ragazzine procaci, arrivisti caricaturali, principali arroganti, e ancora avidi ciarlatani, prostitute agée e religiosi dell’ultim’ora si affollano sulla piazza nella settima che precede l’arrivo dei visitatori celesti, attraversando lo sguardo del timido e imbranato Luca Bertazzi, cameriere al bingo locale e innamorato senza speranza della bella vicina di casa. Un umorismo a tratti travolgente percorre il resoconto della tragicomica esistenza di Luca: il padre, un inedito Roberto Herlitkza, vive in un casolare di campagna e si infatua di un’aliena che si rivelerà una cuoca provetta; il suo unico amico è Roberta, transessuale gentile e malinconico; i suoi colleghi rappresentano un campionario delle più squallide nefandezze e l’unica donna che ogni tanto frequenta è un’anziana prostituta che riceve i clienti in un mobilificio, scegliendo il talamo in base allo status sociale dell’acquirente. Ma è un sorriso amaro quello che Pacinotti rivolge alle sue creature, freaks incapaci di sottrarsi a bugie e piccoli rancori, anime macchiate che incarnano un mondo sull’orlo del tracollo, che si gettano a capofitto in pratiche insensate, pronti ad abbandonarsi a qualsiasi illusione (che sia il denaro o la salvezza dell’anima) si materializzi all’improvviso e, al tempo stesso, a risolvere ogni conflitto con una scrollata di spalle (“ma in fondo, a ben pensarci, non è successo nulla”, ripeteranno un paio di volte i personaggi e, in entrambi i casi, ci sarà di mezzo un morto), segno che ormai perfino la massima gattopardiana “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi” è ormai passata definitivamente di moda. E in fondo, come ha suggerito lo stesso Pacinotti alla conferenza stampa veneziana, anche chi rimane a guardare e attende dal cielo la salvezza, come sembra fare Luca (l’ultimo terrestre scampato almeno in parte all’ipocrisia che tutto avvolge, chiuso nel mutismo di chi è divenuto incapace di parlare con un universo incomprensibile) mentre tutti gli altri si sono ormai dati alla fuga, non può certo aspettarsi molto.