“A damsel in distress” era il titolo di un vecchio film con Fred Astaire, nume tutelare del tip tap e padrino ideale di “Damsels in distress”, film di chiusura della Mostra del Cinema di Venezia, che fluttua leggero come una nuvola, moltiplicando per quattro le damigelle in pericolo, fra comedy of manners, accenni di musical e tocchi screwball. Con un gusto a metà strada fra “Cappello a cilindro” e “Mean girls” (anche se con qualche citazione dotta in più), il film si inserisce a buon diritto nella schiera delle commedie-americane-ambientate in un college, con il consueto campionario di smorfiette, piccole rivalità e dormitori femminili, azzeccando a fasi alterne il tono e l’ironia adatti, per quanto 98’ minuti per svolgere un simile intreccio risultino decisamente troppi. Annunciate da titoli di testa rosati e melodie dolciastre, le nostre eroine compaiono sulla scena fin dalla prima inquadratura e, ben presto, gli ignari spettatori realizzeranno che ad essere in pericolo non sono certo le fanciulle, ma i malcapitati compagni di scuola che finiranno sotto le loro grinfie. Violet, Rose e Heather condividono l’ossessione per ordine e pulizia, fanno dell’igiene il primo comandamento e intendono la partecipazione a feste ed eventi mondani alla stregua di un impegno sociale per favorire l’incontro fra i compagni più stupidi (in effetti più o meno tutti scritturabili per il prossimo capitolo di “American Pie”) e le basilari regole del vivere civile. Convinte che saponette e profumi rappresentino il miglior rimedio per ogni dramma dell’ordinaria vita studentesca, le tre grazie sono in fondo persuase che le relazioni amorose con individui con un quoziente intellettivo tendente allo zero offrano le migliori chances di felicità duratura. Tuttavia la creatura cui dedicano più entusiasmo ed energia è certamente l’ufficio prevenzione suicidi, organo destinato a soccorrere con consigli, ciambelle calde e passi di danza i profili che rivelano un’apparente propensione a lanciarsi dall’ultimo piano. Se Violet, Rose e Heather, croce e delizia del college che le ospita, portano avanti da tempo le loro onorate attività, il film del navigato Whit Stillman (noto come il regista di “The last days of Disco” e ormai inattivo dalla fine degli anni ‘90) si apre con l’arrivo di Lily, adottata dalle prime tre e alquanto restia ad accogliere i metodi di cura delle compagne. Come ben sapeva la Emma inventata da Jane Austin, che nella foga di combinare matrimoni altrui si ritrovava innamorata e infelice, l’inflessibile Violet, che comanda a bacchetta umori ed emozioni altrui, perderà inspiegabilmente il sonno prima per quel “tapino” di Jack, incapace di formulare una frase senza maneggiare la pallina antistress preferita e dedito a fantasiosi errori ortografici, e poi per quel bugiardo di Fred, smemorato inventore di identità segrete, con cui si metterà all’opera per lanciare una nuova febbre da ballo. Nel frattempo Lily dovrà destreggiasi fra ex fidanzate gelose e spasimanti fedeli al catarismo, mentre la svampita Heather si ritroverà ad insegnare al povero Thor a distinguere i colori dell’arcobaleno. Alla fine, come in ogni favola che si rispetti, tutti impareranno qualcosa, eccezion fatta forse per il regista che, velleità a parte, sembra aver abdicato agli antichi propositi di lettura critica della società Wasp.