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Venezia 68 – Giornate degli Autori – love and bruises di Lou Ye

Dopo Spring Fever, Lou Ye torna a lavorare con il team della Wild Bunch per il suo nuovo film ambientato a Parigi e ancora una volta osserva un percorso di mutazione intimo e politico con un cinema che confonde le tracce della città con i segni del corpo.

A sviluppare ulteriormente un’idea presente sin dai primi film del cineasta cinese la splendida fotografia di Yu Lik Wai (Plastic City),  capace di catturare i riflessi di una città inafferrabile rivelando lo spazio con la prossimità della macchina da presa alla lotta tra abuso e amore che coinvolge Hua e Mathieu, interpretati dall’esordiente Corinne Yam e da Tahar Rahim (Il profeta).

È sul loro coinvolgimento totale che punta Lou Ye, con una radiografia estrema che per vicinanza racconta senza mediazioni la complessità dolorosa di una società multiculturale, ma a differenza di un film come Persecution di Chereau, dove tutto ciò che è alieno preme da una Parigi ugualmente piagata e accordata sull’ossessivo marcire di una coppia, in Love and Bruises le percosse e gli amplessi, anche quando apparentemente inaccettabili da un occhio pericolosamente “morale”, seguono una traccia vitale, cannibale, che sfiora il confine tra vita e morte: mentre Mathieu e Hua scopano sul ponte di una ferrovia, in discoteca, in camere anguste con i corpi come  porta per sopravvivere all’esterno.

Lou Ye sembra allora più interessato alle origini della violenza, ad uno sguardo periferico che riveli la Banlieue sullo sfondo, come segno di un’origine, oppure in quella presenza oscura e quasi impercettibile dello stato cinese, che nel breve ritorno di Hua a Pechino, durante una sessione di traduzione, viene raccontata attraverso il sogno di una Cina sotto un unico cielo,  la forma di stupro più intollerabile.

Hua e Mathieu hanno vissuto in questi luoghi, e come ha detto Lou Ye dopo la proiezione del film per stampa e pubblico rispondendo alla consueta domanda sulla con-fusione tra affabulazione e reale e ricordandoci quanto certe distinzioni siano ridicole: “tutti i film in fondo, sono documentari”

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