Home festivalcinema Venezia 68 – orizzonti – Cut di Amir Naderi (Giappone, 2011)

Venezia 68 – orizzonti – Cut di Amir Naderi (Giappone, 2011)

Cut sembra in parte la storia personale di Amir Naderi e del percorso doloroso che rende sempre più difficoltosa la ricerca di un sostegno produttivo per i suoi lavori; basta pensare alla genesi legata alla lavorazione di Vegas: Based on a true story, il film del regista Iraniano presentato in concorso a Venezia durante il settembre 2008 e realizzato con capitali in parte racimolati dal gioco d’azzardo.

Sradicato da New York, Naderi arriva a Tokyo e riesce a metter su una produzione neonata, battezzata per l’occasione Tokyo-Story e cresciuta in modo quasi istantaneo grazie all’interessamento di due investitori che hanno potuto consentire l’indipendenza totale del progetto; con la sceneggiatura scritta a sei mani insieme ad uno dei “veterani” del nuovo cinema giapponese Aoyama Shinji (tra i suoi ultimi film, Sad Vacation e Tokyo Kouen) e all’esordiente Yuichi Tazawa, e con un contributo di consulenza speciale offerto da Kiyoshi Kurosawa, che potremmo pensare, dovrebbe aver aiutato molto Naderi nel delineare tutta la morfologia del sottosuolo urbano che anima Cut.

All’inesorabile e ossessivo squamarsi geologico del cosmo familiare nella ricerca del deserto occultato sotto i Casinò di Las Vegas, Naderi penetra da subito il sottosuolo di una città la cui superficie viene mostrata solamente attraverso brevissimi footage dall’alto e con un iniziale movimento di Shunji in corsa per le strade armato di megafono, ripercorrendo un tracciato libero e selvaggio che ricorda tutte le peregrinazioni all’interno di Manhattan nella filmografia di Naderi. Shunji grida la sua passione per il cinema, la scomparsa dei luoghi dove fruirne, la crescita minacciosa dei Multiplex, l’annientamento del “film come arte”.

Ma dietro il desiderio per le immagini si nasconde una pulsione dalle caratteristiche distruttivo-creative che sostituisce il movimento desiderante con i simulacri del mercato. Non è una prospettiva “morale” ma un bradisismo inesorabile che diventa coazione a ripetere, pressione perversa del denaro sulle scelte personali, e in un movimento opposto, emancipazione dalla materia con il farsi inevitabilmente “cosa”.

Per estinguere un debito di gioco del fratello defunto, Shunji accetterà di diventare una sorta di sacco-boxe umano, guadagnando denaro per ogni percossa ricevuta. Non è il denaro quello che conta, ma la possibilità di diventare opera vivente, azione pura, terribile (o magnifica) ossessione, produzione di senso come accumulo di ecchimosi. Nel momento in cui il debito sarà saldato, il desiderio di Shunji si manifesterà come  l’azione di una macchina costretta a immettere  in circolo questa relazione tra denaro e corpo, esorcismo personale e al contempo collettivo dei meccanismi che regolano la produzione, ma anche livido che diventa segno, tela, quadro, film.

Naderi alterna le sequenze di un microuniverso disumanizzato alla proiezione di pellicole della storia del cinema sullo stesso corpo di Shunji, sovrimpressioni che diventano ferite, incisioni che penetrano la carne, da Ozu a Bresson, fino a Ford; texture che spazzano via l’inazione museale di ogni cinefilia per farsi finalmente gioco pericoloso della carne.

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