Gabriel Abrantes è un autore giovanissimo, classe 1984, nato nel North Carolina ma attivo a Lisbona, città dove vive e dove ha prodotto tutti i suoi cortometraggi, selezionati per buona parte al festival IndieLisboa fino al suo lavoro più recente, A History of Mutual Respect, presentato nel 2010 a Locarno e per il quale si è aggiudicato il premio dei Pardi di domani. A History of Mutual respect è anche il nome della sua casa di produzione, fondata nello stesso anno insieme a Natxo Checa e destinata alla produzione di opere per lo più libere e sperimentali. In stretta collaborazione con il coetaneo Daniel Schmidt ha presentato nella sezione Orizzonti di Venezia 68 Palacios de Pena, visionario saggio di storiografia poetica per certi versi vicino al cinema di Joao Botelho nell’affrontare l’anima di un paese attraverso una lingua cinematografica generata da un patrimonio documentale complesso. Testo letterario, storia materiale, memoria storica, linguaggio popolare, presente e passato si intrecciano in una visione molto difficile per chi non conosce perfettamente la storia del Portogallo; l’intenzione di Abrantes è quella di indagare un’eredità culturale tutta Portoghese, “legata all’oppressione politica e sociale durante l’I nquisizione e il fascismo“. Storia intima e storia collettiva si intrecciano nel racconto di due ragazzine in fase di crescita, dove il loro confronto con la memoria non è solo famigliare, ma mediato da una testimonianza vivente rappresentata dall’anziana nonna, tramite per raggiungere un complessa relazione con le proprie radici identitarie. Sospeso tra sogno e poesia, Palacios de Pena inserisce gli elementi più dolorosi dell’inquisizione, materializzando in una compresenza quasi fantascientifica il racconto di formazione con l’episodio che vede condannati al rogo due omosessuali moreschi. Abrantes ha un induscutibile talento visionario e una propensione al trattamento cinicamente surreale della materia storica, valga per tutte la sequenza incubo dove le ragazzine sognano la Nonna che sostituendosi al giudice dell’inquisizione racconta le responsabilità di una comunità attraverso il corpo di un essere mostruoso con la testa di un San Bernardo; momento che segnala anche la fitta frequentazione di Abrantes nell’ambito della videoarte. Rimane un senso di scollamento dal tessuto più vivo del lavoro, Palacios de Pena è un testo cinematografico affascinante ma di difficile interpretazione, dove nell’innegabile capacità dei due autori di lavorare sull’idea di profondità dell’inquadratura come luogo di stratificazione di senso, emerge la sensazione di un sovraccarico di significati.