La sensazione che Venezia 68 sia riuscita a combinare una serie di palinsesti in forte comunicazione tra di loro era già abbastanza forte dopo la conferenza stampa Romana, ma la complessità delle opere presentate, nel bene e nel male, ci ha mostrato un cinema fuori cornice, dalla consistenza tattile, alla ricerca di una presenza fortemente fisica fuori dai formati tradizionali, un po’ come il viaggio sensoriale verso la nascita dei bellissimi film di Tsukamoto Shinya a di Lav Diaz. Lo dimostrano, al di là di preferenze e analisi critica, i film di Friedkin, Ann Hui, Steve Mcqueen, Cronenberg, Ferrara, Sokurov, Garrel tutti delineati in uno spazio fluttuante, sia esso vicino alle simmetrie di Shame o allo spazio psichico di Cronenberg, al digitale intimo di Ferrara o al movimento mutante e senza fine del Faust di Sokurov, alla finzione che non è più separabile dal documento nel bellissimo A Simple Life di Ann Hui o alla cicatrice tra simulazione e sentimento nel cinema di Garrel, fino alla destrutturazione dell’ottica teatrale e temporale in Friedkin. Tutto questo testimonia non solo una scelta radicale per i film del concorso,forse impensabile qualche anno fa, ma anche una stretta relazione ormai inscindibile tra la selezione ufficiale e Orizzonti, la sezione più coraggiosa della mostra. Rispetto al cinema da Camera di Friedkin e Ferrara (al di là del risultato, qui stiamo parlando anche di formato, i film di Naderi, Tsukamoto, Glawogger, avrebbero potuto tranquillamente essere inseriti nel palinsesto principale come esempi fortissimi di un cinema che si reinventa a partire dalla permeabilità dei mezzi. E se nella conferenza stampa conclusiva, tenutasi oggi alla terrazza Orizzonti, Marco Müller, per rispondere ad una domanda sulla forte presenza di documentari italiani, ha risposto dicendo che “le diverse linee del documentario sono più interessanti del cinema narrativo italiano”, ci sarà una ragione che vogliamo immaginarci vicina ad un cinema di “formato ridotto” in grado per certi versi di riconfigurare l’assetto di un mercato incerto sulla direzione da prendere. Venezia per Müller è ovviamente anche una piattaforma importante per il lancio promozionale dei film a livello internazionale, lo dimostrano alcune scelte ma anche il dialogo con un contenitore vastissimo come quello del Toronto Film Festival cominciato già dal 2009 con titoli come The Hurt Locker e The Wrestler; a dimostrazione di questo, la collocazione di Cronenberg e Polansky nei primi tre giorni di programmazione, come testimonianza della forza promozionale del festival. A noi piace pensare, al di là della disattenzione cronica della stampa quotidiana nei confronti di alcuni titoli, frutto di una preparazione di tipo divulgativo (probabilmente necessario alla macchina in toto) ad un festival mutante in grado di crescere con un dialogo interno tra ricerca e mercato che la direzione Müller ha favorito con una strategia e una preparazione davvero notevoli; un cambio di guardia in un momento storico-politico tragico per il paese, potrebbe significare il salto in un contesto incapace di portare avanti questa importante eredità.