Rama Burshtein, Newyorchese classe 1967, dopo il diploma in cinema e televisione conseguito a Tel Aviv, si avvicina alla comunità Ebraica Ortodossa per la quale produce una serie di documentari volti a diffonderne la cultura e i costumi. Fill the void è il suo primo lungometraggio realizzato con l’intenzione di penetrare il tessuto quotidiano e ritualistico di un mondo chiuso e poco conosciuto all’esterno dello stesso contesto comunitario, osservato a partire dalla storia di una famiglia; una scelta minimale che ha consentito alla Burshtein di lavorare sull’inquadratura, sulla vicinanza estrema ai volti e ai dettagli e su una fotografia curata da Asaf Sudry che oscilla tra la vicinanza documentaristica dei nuovi dispositivi portabili digitali e un’iperreale patina morbida che paradossalmente spezza la fredezza del digitale con una tonalità vicina a certo cinema degli anni settanta. Girato in una Tel Aviv che rimane quasi completamente fuori campo si sviluppa intorno ai preparativi per il matrimonio di Shira, promessa ad un coetaneo della stessa comunità è persa nel sogno di un futuro d’amore. Ma durante una festa tradizionale, nota con il nome di Purim, momento di libertà e gioia performativa per la comunità Chassidica, dove il rigore dei vestiti tradizionalmente neri per gli uomini viene violato dalla possibilità di travestirsi e di cambiare ludicamente ruolo, un evento tragico cambierà la priorità delle cose; la sorella maggiore di Shira, Esther, muore di parto e improvvisamente la famiglia che ne esce sconvolta mette in secondo piano i preparativi per il matrimonio della giovane ragazza. Yochay, il marito di Esther, rimasto solo pensa di lasciare la città con il primogenito, per evitare questo la famiglia cercherà di proporlo proprio a Shira, che si troverà di fronte ad una scelta complessa. Rama Burshtein si avvicina con precisione documentale alla vita quotidiana della comunità occupando uno spazio di prossimità estrema, tanto che Fill The Void è per certi versi un estenuante e affascinante film di dettagli e primi piani, dove la vicinanza al mondo femminile sembra in un certo senso il rovesciamento della prospettiva negativamente integralista osservata da Amos Gitai nel suo Kadosh, un film per certi versi spculare che anelava ad una fuga dallo spazio delimitato dalle leggi di una tradizione che taglia fuori le donne. La Burshtein vive al contrario con forte convinzione il complesso equilibrio tra i mondi maschile e femminile nella comunità chassidica e per questa aderenza ne rivela la forma dei sentimenti più profondi attraverso il dissidio di Shira, che la regista Ebrea Ortodossa rivela in parte ispirato ai romanzi di Jane Austen; ed è in effetti quello il contrasto, la scelta tra il desiderio amoroso e il significato più difficile e impenetrabile della tradizione religiosa. Riempire un vuoto; quando l’occhio della Burshtein si avvicina a Shira vestita di bianco, nel giorno del suo matrimonio, la crescita di quel sentimento rimarrà necessariamente fuori campo, con quest’immagine disturbante e ossessiva della ragazza che ripete un movimento rituale di difficile interpetazione, tra ansia e gioia.