Come prima cosa bisogna considerare il retroterra da cui proviene Outrage, ovvero la cosiddetta “trilogia del suicidio artistico” (Takeshis’s, 2005; Glory to the filmaker, 2007; Akires to kame, 2008): un rito auto-riflessivo con cui Kitano, destrutturando e dissacrando il proprio cinema, ha fatto i conti (con mirabile e sincera umiltà) con la crisi creativa che lo aveva colto. Un esercizio che ha messo a nudo anche le considerevoli preoccupazioni performative di Kitano per le prospettive di sviluppo del suo cinema, il quale continuava ad alimentare aspettative smisurate, destinate comprensibilmente (e meno male che pure Kitano è umano!) a non poter trovare ancora le stesse soddisfazioni di quella grande stagione, colma di assoluti capolavori, che va dall’esordio con Violent Cop (1989) sino a Dolls (2002).
Superata (?) questa parentesi della sua carriera, il ritorno ai climi dello yakuza eiga suonava come l’annuncio di un atto palingenetico; una nuova verginità che avrebbe segnato un diverso approccio, magari in chiave revisionistica, al genere prediletto dal regista, che oltretutto ne ha accolto i natali cinematografici. Outrage invece si è rivelato un’asfittica riproposizione di figure retoriche kitaniane sviscerate in toto nella loro capacità di significazione; un centone di superfici stilizzate che non esprimono più nulla della poetica dell’autore, né tantomeno si spingono in altre direzioni. La corsa degli yakuza verso il loro destino di morte non è più tragica; dell’estasi della violenza cristallizzata in attimi atemporali non c’è più traccia e nemmeno della dolcezza struggente ad essa intrecciata. Se un tempo Kitano infrangeva le regole del genere per servirsene come laboratorio per la propria formula autoriale, con Outrage queste conquiste sono state inghiottite e digerite dal genere.
Nel sequel Outrage beyond, in concorso a Venezia 69, la fisionomia del prototipo, descritta poc’anzi, viene replicata e Kitano finalmente scopre le carte: il “nuovo” corso del suo cinema post trilogia è imperniato su un’idea industriale di produzione in serie con mere finalità ludiche (Outrage e Outrage beyond fanno parte di un progetto unico, dato che in serbo c’è già la sceneggiatura del terzo capitolo). Una volta esaurita la linfa della sua poetica, Kitano non poteva che ripiegare sul mestiere maturato lungo la carriera, esattamente come i personaggi di questi ultimi film, che sono figure dischiuse solo e soltanto dalla loro “professione”, le cui vite al di fuori del clan sono espunte dalla narrazione. Lo stesso mondo della mafia organizzata è raccontato come l’ipertesto di una realtà imprenditoriale (l’industria cinema, forse?), in cui arrivismo, opportunismo e vocazione al tradimento restano gli ingredienti più consueti ed efficaci per ottenere la carica ambita. La lotta, per dirla con Fukasaku, è senza codice d’onore e il più sordido dei doppiogiochisti stavolta è un agente di polizia intrallazzatore che – e qui il tratteggio è interessante – assume i contorni di una diffusa tipologia di uomo politico votato alla demagogia, agli orditi machiavellici, alla lungimiranza implacabile.
Se si volesse apprezzare Outrage beyond ritenendolo unicamente come ortodosso film di genere con sedimenti kitaniani, i conti ancora non tornerebbero a causa dello squilibrio narrativo e di registro fra la prima e la seconda parte. Per più di un’ora il film affoga in un diluvio di logorrea – si parla, si parla, si parla, rinchiusi fra le quattro mura di uffici claustrofobici – che riesce a devitalizzare persino l’elegante sintesi visiva della violenza di molte scene dell’ora seguente. Non mancano interventi ironici, come una tortura con raffiche di palline da tennis in piena faccia – tra le poche cose azzeccate del film. Ecco dunque il Kitano d’oggi: né risorto, né rinnovato, ma molto più semplicemente omologato. Prendere o lasciare.