Realizzato per Wowow Network, il nuovo lavoro di Kurosawa Kiyoshi arriva a quattro anni di distanza da Tokyo Sonata, la sua ultima produzione per il cinema scritta a quattro mani con Max Mannix. Shokuzai è una miniserie costituita da cinque episodi della durata complessiva di 300 minuti, la versione originale è stata rieditata appositamente per il festival di Venezia con il taglio di circa 30 minuti. Condensazione necessaria, come ha raccontato lo stesso Kurosawa in conferenza stampa, legata agli elementi introduttivi di raccordo che per una proiezione continua avrebbero creato uno straniante effetto di ridondanza.
Tratto dal romanzo della scrittrice Giapponese Minato Kanai, nota anche per le trasposizioni dei suoi lavori realizzate recentemente da Nakashima Tetsuya (Confessions) e Sakamoto Junji (The Northern Canaries) Shokuzai lascia intatte le tracce generiche del racconto, riducendo i dialoghi, cercando di inoltrarsi in un’esplorazione successiva rispetto alle allusioni del testo e costruendo nuovi e più complessi sistemi relazionali tra i personaggi.
Nella città di Ueta, una bambina di nome Emili, mentre gioca con le sue piccole amiche Sae, Akiko e Yuka, viene condotta nella palestra della scuola da una misteriosa figura maschile, e lì stuprata e uccisa. Nonostante le bambine riescano in qualche modo a vedere il volto dell’assasino, saranno incapaci di ricordare qualsiasi elemento rilevante sul crimine. Asako Adachi, la madre di Emili, interpretata da una splendida Kyoko Koizumi (Tokyo Sonata, sempre con Kurosawa) riunirà le superstiti in un giuramento terribile; dovranno aiutarla, negli anni a venire, a trovare l’assassino della figlia, oppure, in caso di fallimento, affrontare una punizione scelta da loro stesse. Quindici anni dopo ritroviamo Sae, bambola di carne che non riesce ad avere una relazione completa con gli uomini, Maki, un’insegnante dilaniata dal senso del rigore e del dovere nel suo contesto lavorativo, Yuka, ragazza ossessionata dagli uomini in uniforme, riguardo alla quale Kurosawa ci mostra nei primi minuti del film alcuni elementi di questa stessa ossesione coltivata sin da bambina, e infine Akiko, “ragazza selvaggia” che serve a Kurosawa per lavorare sull’episodio dedicato in modo specifico alla complessa rete di relazioni interfamiliari.
Le vite delle tre ragazze continueranno ad essere legate a quella della madre di Emili, giudice terribile sulla loro condizione di sopravvissute.
Penance è forse uno dei lavori più duri di Kurosawa Kyoshi, proprio in virtù di un formato come quello destinato al pubblico Televisivo, apparentemente più intellegibile; all’interno di un dispositivo che accorda temi e sottotemi secondo un meccanismo di ripetizioni e consuetudini del racconto seriale, il regista Giapponese non rinuncia al suo rigoroso lavoro di destrutturazione dello spazio, ne a quel cinema cognitivo a cui ci ha abituati e che mette in relazione oggetti e corpi. Shokuzai è per certi versi un film di fantasmi come lo era Retribution, con cui condivide lo stesso estremo rovesciamento parodico del genere e sopratutto la dislocazione percettiva del “fenomeno”, un po’ come se tutti gli elementi che potrebbero essere ricondotti ad una genesi extrasensibile fossero disinnescati da una teoria caotica della percezione di spazio e tempo, memoria e materia.
Basta pensare alle occorrenze che sovrappongono più falde temporali in quell’unico spazio dove verrà nascosta, ritrovata, ri-materializzata una lettera importante per le vite della madre di Emili e dell’assassino; in questo senso Shokuzai porta a conseguenze estreme e verso una cecità ancora più oscura i rovesciamenti pre-cognitivi di uno dei capolavori di Kurosawa, Kôrei, film girato per la televisione nel 2000 e la cui ambiguità anti-metafisica potrebbe spingerci a riconsiderarlo come una sorta di anti “Sesto senso”.
La lunga durata di Shokuzai consente a Kurosawa di rilanciare il suo cinema in una sintesi portentosa della sua stessa filmografia, cambiando registro ad ogni episodio, costruendo un vero e proprio storytelling dell’ambiguità, estremizzando tuti i livelli di montaggio disgiuntivo e illogico che attraversano il suo cinema, raccontandoci ancora una volta e con una ludicidità terribile come si sta trasformando il sistema di relazioni famigliari giapponese o forse globale, come ha voluto puntualizzare durante l’incontro con la stampa a Venezia.