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Venezia 69 – Orizzonti – Kapringen (A hijacking) di Tobias Lindholm (Danimarca, 2012)

Una nave mercantile danese in rotta per Mumbai viene presa d’assalto dai pirati somali. Questo è il contesto di riferimento per Kapringen del danese Tobias Lindholm, regista uscito dal Dansk Filminstitut e sceneggiatore occasionale di Thomas Vinterberg. . Il cinema di crudeltà legato a storie di rapimenti e riscatti è un fenomeno che riscuote notevole successo: tanto per fare qualche nome, risale all’ultima edizione della Berlinale Captive di Brillante Mendoza. Un genere come questo è stato fin troppo indagato e sondato ma risulta comunque in grado di offrire notevole libertà nella resa drammatica e la traduzione del reale. Se in Captive Mendoza aveva deciso di esacerbare il determinismo della prigionia, Kapringen gioca tutto sul rapporto mediatico tra rapiti, rapitori e negoziatori. Il film è infatti incentrato sul continuo salto spaziale tra le cabine-prigione all’interno del quale si trova rinchiuso Mikkel (cuoco a bordo, protagonista a tutti gli effetti del film) e gli uffici della compagnia proprietaria della nave, presieduta dall’AD Peter. Questi si assume la responsabilità delle contrattazioni dando il via ad un prevedibile gioco psicologico tra le parti. Malgrado la struttura del film non riservi sorprese narrative, la successione degli eventi riesce a catturare per la particolarità delle atmosfere. Non solo la segregazione negli spazi della nave che rimanda ad immaginari di per sé molto caratterizzati, ma soprattutto il distacco formale dei negoziatori. Il tema del pragmatismo affaristico danese, per quanto possa sembrare un argomento del tutto circoscritto, è invece una bizzarra riproposizione cinematografica: nei modi calcolatissimi di Peter e dei suoi collaboratori si intravedono i paradossi di Lars Von Trier ne Direktøren for det hele (2006) e l’effetto che ne consegue è quantomeno balzano. Nonostante questo non si deve considerare Kapringen una sorta di parodia, perché l’acme del film risiede comprensibilmente nella tensione estrema in cui versano i prigionieri. Lindholm si affida alla forte carica emotiva del racconto e lo valorizza con una stile essenziale ed adeguato: le sequenze tendono a spezzarsi e le inquadrature si sviluppano precarie e diseguali man mano che il dramma avanza. Ora non occorre azzardare paragoni con certo scomodissimo “dogmatismo” danese (anche perché le scelte di Lindholm si sviluppano seguendo esigenze diverse), ma colpisce la concreta valorizzazione del setting. Non avendo a disposizione scenari particolarmente comunicativi, Lindholm lascia che sia l’acciaio claustrofobico della nave a comporre la naturale partitura della vicenda. Non mancano neanche scene di forte impatto visivo, ad esempio quando il cuoco Mikkel è costretto dai pirati somali a sgozzare una capra trasportata a bordo per sopperire alla mancanza di cibo (l’animale viene trucidato sul serio). La costruzione del linguaggio attuata da Lindholm è semplice, ma estremamente penetrante. Finanche i parossismi della prigionia, come il rapporto che viene a costituirsi tra le vittime e i rapitori, viene qui evitato a favore di un ben più godibile cinismo, che antepone le logiche finanziarie del riscatto ad ogni forma di sentimentalismo. L’unico finale possibile per Kapringen è il trauma che colpisce Mikkel. Un trauma che si trasmette visivamente allo spettatore.

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