Due ragazzi appena usciti dalla pubertà si ritrovano costretti in un casermone di periferia: lui, Salvatore, deve sorvegliare lei, Veronica, finché non arriveranno “quelli”, i boss che regoleranno i conti con la ragazza. Nessuno dei due ha colpe alcune, se non quella di essere nati in un quartiere a concentrazione mafiosa, una di quelle “città di dio” tanto fatiscenti quanto sovrappopolate. Questo è il quadro de L’intervallo di Leonardo Di Costanzo, il primo film “di finzione” del regista campano dopo una vita passata a montare documentari. Il canovaccio è scarno ed essenziale: due protagonisti e un’ambientazione ridotta al minimo con poche ore per lo sviluppo della fabula e un solo scenario che si ripete senza apparenti soluzioni di continuità. L’intervallo è uno di quei film che, purtroppo, fanno discutere prima ancora dell’uscita. Le mafie al cinema sono infatti un fenomeno che, per quanto ormai consolidato nell’industria cinematografica nostrana, spaventa persino gli addetti ai lavori. Il motivo non è di natura politica (almeno si spera), ma meramente estetica: la domanda che ci si pone è fino a che punto il regista si sarà sbilanciato nella trascrizione di una realtà tanto cruda e violenta. Di Costanzo sceglie un approccio trasversale; si accosta alla camorra in maniera marginale e trasferisce tutta la carica espressiva ai due ragazzi, rimarcando così la perversione del contesto sociale specifico. Non è la prima volta che si racconta di ragazzi e mafia. Il rimando più chiaro de L’intervallo non è però Gomorra (che condivide con questo film gli sceneggiatori e il contesto di riferimento), ma piuttosto i documenti vagamente melò di Marco Risi, Mary per sempre e Ragazzi fuori. La somiglianza è determinata dall’originalità di un analisi che in entrambi gli autori si costituisce “dal basso”, dagli occhi degli innocenti. Le differenze tra Risi e Di Costanzo sono però evidenti e non solo a livello formale: da una parte si hanno due concezioni diverse nelle soluzioni narrative, che in Risi tendono alla cronaca, mentre in Di Costanzo all’affresco ; dall’altra c’è una cornice che si differenzia tra aberrazione e disfacimento. Quest’ultima distinzione, magari azzardata, è ben visibile nel rapporto tra i protagonisti de L’intervallo: il regista non realizza una caricatura dei due personaggi, ma sfrutta la loro rassegnata naturalezza. Salvatore e Veronica stupiscono infatti per l’estraneità ai fatti narrati (quasi fossero Vladimiro ed Estragone trapiantati in Campania) e per l’affinità con un ambiente cui appartengono di diritto. A Di Costanzo non rimane che tingere la vicenda di iperrealismo: il dialetto è l’unico elemento effettivo che permetta una collocazione spaziale (che appare chiara sin da subito), mentre i piani ravvicinati e veloci articolano le sequenze. In questo modo il film disperde la rarefazione iniziale, dischiudendo gradualmente la leggibilità della trama. I due ragazzi vincono i sospetti iniziali e divengono amici, ma alla fine sono costretti a separarsi come due estranei: così vogliono le leggi del quartiere, un sistema cui entrambi non vogliono e possono sottrarsi. È questo senso di sopraffazione, tanto sottile quanto inesorabile, l’elemento più spiazzante del film.
Venezia 69 – Orizzonti – L’intervallo di Leonardo Di Costanzo (Italia, 2012)
Due ragazzi appena usciti dalla pubertà si ritrovano costretti in un casermone di periferia: lui, Salvatore, deve sorvegliare lei, Veronica, finché non arriveranno “quelli”, i boss che regoleranno i conti con la ragazza. Nessuno dei due ha colpe alcune, se non quella di essere nati in un quartiere a concentrazione mafiosa, una di quelle “città di dio” tanto fatiscenti quanto sovrappopolate; L'intervallo di Leonardo di Costanzo, Venezia 69, sezione Orizzonti la recensione di Davide Minotti...