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Venezia 69 – Settimana della critica – La città ideale di Luigi Lo Cascio (Italia, 2012)

Michele Grassadonia è un architetto Palermitano trasferitosi da più di dieci anni a Siena; in quella che lui ritiene la città Ideale cerca di perseguire con ostinato autismo un difficile obiettivo qualitativo, eliminare ogni forma di spreco dalla sua vita e praticare una condotta energetica ed ecologica estrema. Nell’appartamento dove vive evita di utilizzare acqua corrente per lavarsi e genera energia elettrica con un dispositivo a pedali. Quando il  titolare dello studio dove è impiegato gli chiederà di andare a prendere la moglie che vive fuori città a causa di un impegno del capo con il Lion’s Club, Michele che non guida da anni, si farà prestare la macchina da un amico. Durante il viaggio, un incidente dai contorni e dalla dinamica incerta si confonderà con il ritrovamento di un cadavere sul ciglio della strada. Inizia cosi a sgretolarsi l’immagine di una città immaginata i cui confini con l’incubo gettano Michele in un’inesorabile discesa spiraliforme. L’esordio dietro la macchina da presa di Luigi Lo Cascio sembra animato da quel surrealismo delle cose quotidiane di memoria Buzzatiana, viene in mente per certi versi il secondo film di un attore italiano realizzato come regista, “il fischio al naso” girato da Ugo Tognazzi nel 1967,e tratto appunto da Sette Piani, uno dei racconti dello scrittore Bellunese scritto agli inizi degli anni ’40 dove la funzionalità del sistema sanitario collideva con un’impossibilità interpretativa da parte di un paziente affetto da una malattia inconoscibile. Lo Cascio parte proprio da questo scollamento, l’utopia ridotta ad un’ossessione autistica, percorso solitario e per certi versi pericolosamente isolazionista e uno stato di diritto che assume connotazioni mostruose e irrazionali di fronte all’infrazione della normalità. Il contesto è quello giudiziario, ossatura della socità Italiana contemporanea per Lo Cascio, un complesso sistema antropologico con regole endogene che possono essere comprese solamente con una sovversione della logica razionale. Lo Cascio realizza un film cupo, oscuro,  visionario, per certi versi forse un po’ ridondante nella rappresentazione sistematica di una realtà deformata, ma decisamente non convenzionale e coraggioso nel panorama del cinema italiano contemporaneo; siamo molto lontani per esempio dall’autocompiacimento visivo del cinema di Paolo Sorrentino; l’immagine grottesca non si sovrappone mai alla complessità del reale, ma ne coglie al contrario gli interstizi oscillando tra sogno e quotidiano con una semplicità magica che ricorda alcune cose Zavattiniane o le commedie metafisiche di Luigi Zampa.

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