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Venezia 67 – Giornate degli autori – The Happy Poet di Paul Gordon (Usa, 2010)

Fotografato da Lucas Millard con una Red camera, il secondo film di Paul Gordon cerca nel formato digitale più vicino alla risposta “naturale” della luce quella flagranza che che avrebbe dovuto essere il centro di Motorcycle, il suo primo film girato nel 2006 quasi interamente in 16mm e con innesti miniDV; stesso approccio diretto e improvvisativo con gli attori, stesso rapporto tra inquadratura e parola. Il primo film di Gordon era un saggio universitario messo insieme nel tempo, mentre The Happy poet è un progetto che pur avendo seguito uno sviluppo del tutto autonomo, ha un formato più definito e orientato all’esportazione festivaliera; non è un caso che sia passato da vetrine di un certo tipo come il Rooftop Films, il South By Southwest festival per poi uscire dall’alveo di sicurezza dei contenitori indie oriented verso festival dalla struttura più vasta e apolide come quello di Thessaloniki e Venezia 67 nella selezione delle Giornate degli Autori.

E il problema è probabilmente anche questo, una questione di “tagli”, durate, formati, che nelle scelte di Gordon è probabilmente molto più strategica di quanto non voglia farci credere quando chiama in causa Ozu tra le sue ispirazioni principali. L’occhio di Gordon allora si ritaglia un’inquadratura di sicurezza sulla vita di Austin, ricorrendo ad una serie di oggetti, materiali, simboli legati alla cultura del cibo in una tenera conversione Vegana del concetto di fast food.

Bill vende insalata di uova senza uova e panini Vegetariani servendosi di un vecchio stand ambulante per la vendita di Hot-dog, piccolo catalizzatore dell’umanità che il cinema stesso di Gordon sogna e persegue, ovvero il fiato corto di un’impermeabile riserva progressista. Ed è vero, come racconta in alcune interviste, preferisce le inquadrature fisse e la libertà degli attori nel gestirsi lo spazio del frame, un rigore che salta immediamente in aria quando ci si accorge che il lavoro sui tempi è sempre più prossimo al taglio della commedia di parola; nessun tentativo di rischiare per un attimo il disequilibrio tra spazio e performance, più che libertà ci è parso di vedere una serie di potenziali performance annullate nella neutralità distante del bozzetto, qualcosa che si avvicina alla funzionalità gelida del primo Allen, ovvero quell’equivoco duro a morire che sostituisce la necessità di uno sguardo ambiguo nel farsi di un racconto morale, con la scorciatoia della didascalia.

 

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