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Vengeance – di Johnnie To (Hong Kong – 2009)

vengeance_to_hallydayE’ un dispositivo complesso e apparentemente oliato quello che regola l’andamento degli ultimi film di Johnnie To, produzioni incluse; basta pensare al bellissimo Accident di Pou-Soi Cheang visto recentemente a venezia 66; la geometria di una serie di omicidi organizzati viene occultata dai capricci del caso, una flagranza studiata al millimetro così da creare una replica della realtà causale, fino a quando i due mondi non cominceranno a scontrarsi; è un’idea di cinema che include l’organizzazione classica del set e il suo contrario, un metodo che gioca con gli incastri di un meccanismo matematico rischiando la libertà di incepparlo o di seguire semplicemente un pezzo alla deriva. La deformazione dell’andamento è in verità già visibile nel disegno degli spazi e nella dilatazione del tempo che To amplifica con un senso di astrazione poetica che gli permette di seguire immagini sconnesse; banalmente potremmo parlare di oggetti, reperti, ingranaggi che possiamo contemplare nella loro libertà di macchine celibi; in Vengeance per esempio è la bicicletta che diventa oggetto di un tiro al bersaglio e che continua a muoversi come se fosse trascinata da una propria gravità, oppure il frisbee colorato che colloca in un non tempo l’attesa minacciosa di un duello. L’attenzione di To agli oggetti ha una consistenza Noir in termini cognitivi, non è un semplice riferimento post-moderno, quanto la penetrazione radicale nel sistema nervoso di un cinema fatto di reperti, tracce, segni e soprattutto, memorie. Nel film che sembra la concentrazione di uno stile personalissimo rielaborato in una forma più accessibile, in realtà To gioca la sua carta più radicale e minimale; Vengeance è un’esperienza straordinaria e in un certo senso sembra un film davvero definitivo sull’idea di Vendetta come lo era per vie diverse il bellissimo Hana di Koreeda Hirokazu; l’inesorabilità manichea della Vendetta è agganciata labilmente al filo della memoria, senza bisogno di giocare con l’esuberanza del meccanismo come in un qualsiasi film influenzato dalle scelte più facili di Christopher Nolan, To erode progressivamente il suo film e lo semplifica ad un livello intimo e familiare. Johnny Hallyday riesce a imprimere nel suo volto immutabile una varietà ricchissima di storie, in una stratificazione che è eminentemente visionaria cerca di non perdere il contatto con un’ossessione fotografando persone, catalogando con una serie di scatti la morte dei suoi cari; la memoria viene sostituita da immagini sconnesse, le stesse che in fondo attraversano tutti gli ultimi film del regista Cinese, la loro ricollocazione è labile, quasi aerea e in contrasto con la fisicità delle sequenze di violenza e le traiettorie balistiche della macchina da presa; i segni sopravvisuti cercano di abbinarsi ad un senso ma sono semplicemente un tunnel che divide la vita dalla morte; Costello è sulla spiaggia, l’unica cosa che si ricorda è il linguaggio purificato e quasi desacralizzato di una preghiera, i morti della sua vita camminano verso di lui.

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