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Venuto al Mondo di Sergio Castellitto

«È un film che non piacerà a chi ha paura della vita». Anteprima di Venuto al mondo (Twice Born il titolo internazionale). Incontro con la stampa milanese. Sergio Castellitto difende la sua ultima creatura, cita Tarkovskij («ogni film è una dichiarazione d’amore») e, con consumato mestiere, snocciola fra le righe quel che intravvede già che i critici gli rimprovereranno. Perché Venuto al mondo (e Castellitto lo sa bene), è ridondante e colorato, cammina impavido sul crinale del feuilleton televisivo, urla rabbia e sentimenti, mescola toni e temi per inseguire archetipi, disegnando la parabola di una donna catapultata nell’inferno della guerra balcanica, eppure preda di sentimenti privatissimi (l’amore per il suo uomo, lo yankee venuto a fotografare pozzanghere e a disegnare fiori intorno alle cicatrici; il desiderio spasmodico di dargli un figlio, un “lucchetto di carne” con cui tenerlo per sempre legato). Castellitto, che adatta il premiato romanzo della moglie Margaret Mazzantini, è un esploratore, non teme nulla: «adoro peccare», confessa con un sorriso. «Voglio sporcarmi le mani con le emozioni forti. Il nostro film parla di vita, morte, fedeltà, rimozione, maternità e paternità. Se si rinuncia a sfiorare il rischio del ridicolo, non si può raggiungere il sublime. Il libro di Margaret mi ha guidato, mi ha offerto un’inesauribile spinta propulsiva, dandomi personaggi, caratteri e conflitti già delineati. Ma, come ogni buon figlio, anch’io ho sentito il bisogno di correre in autonomia». Rallenty, fermi immagine, insistiti primi piani, musica a ondate, macchina da presa oscillante in oltre due ore di sequenze che giocano sull’accumulo (di corpi, umori, di contrasti) e al contempo sulla sottrazione («Il cinema è la vita senza le parti noiose». Il detto hitchockiano è qui applicato con vigore), salvando nascite, morti, bombe, gelosie. 1984, Olimpiadi invernali di Sarajevo. Mentre la neve stenta a cadere, l’italiana Gemma (Penelope Cruz), in Bosnia per completare una tesi sul poeta Andric, incontra Gojko (Saadet Aksoy), poeta, intellettuale e ubriacone, travolgente inventore di versi che le presenta l’americano Diego (Emile Hirsch), fotografo eroinomane, traboccante d’amore e di gioia di vivere. Gemma torna in Italia, si sposa, divorzia, si ricongiunge con Diego, ma scopre di non potere avere figli. In Bosnia scoppia la guerra: Gemma e Diego partono per Sarajevo, per assistere  gli amici e forse per fuggire da se stessi e da quella fiamma che si sta spegnendo. Vent’anni dopo Gemma, ormai da tempo moglie del pacato Giuliano (Sergio Castellitto), è di nuovo a Sarajevo, stavolta con il figlio Pietro (Pietro Castellitto), per visitare una mostra di fotografie di guerra, ritrovare i vecchi amici e riavvolgere il filo della memoria, alla scoperta di una verità dolorosa e liberatoria, che rimetterà in discussione la sua intera esistenza. Venuto al mondo è un collage di scene madri incastonate in una narrazione che oscilla fra passato e presente, a cavallo degli ultimi trent’anni di storia bosniaca, in cui la morte e il dolore sono quadri allucinati che sospendono il flusso temporale (le galline sterminate nel prato, il vecchio professore ucciso da una pallottola nel cranio mentre torna alla sua università, l’amico colpito mentre spinge la carrozzella del padre, lo stupro a ritmo di pop o la bomba che travolge la stanza di Aska, oscurando il vecchio poster di Kurt Cobain). Lo squilibrio stilistico e i repentini cambi di tono sono la cifra di un film che naviga senza ancoraggi, fra umorismo balcanico, sprazzi di commedia all’italiana, melodramma sentimentale e rievocazione storica. È la vita che è eccessiva, disomogenea e surreale, sembra dirci Castellitto, di fronte a un’opera che rinuncia in partenza a ogni coesione formale e narrativa, affidandosi al flusso delle emozioni che travolgono personaggi in bilico fra piccola e grande storia. L’amalgama in fondo non c’è: la cronaca di un amore assoluto fa della guerra una materia separata, uno sfondo che intralcia l’ostinata ricerca della felicità di Gemma, attorno alla quale ruotano personaggi e situazioni che si trasformano in macchie di colore. La maternità negata, quella sterilità che ossessiona Gemma, malgrado l’amore di Diego, è lo specchio dell’aridità del mondo occidentale, spento dai fuochi di una guerra insensata, eppure avvolto dalla poesia dei suoi abitanti, malinconici e scanzonati. L’impresa è titanica, la difficoltà nel governare il magmatico materiale messo a disposizione dal romanzo di Margaret Mazzantini non oscura l’approccio entusiastico e sincero a un progetto che si è trasformato, per ammissione della coppia, in una personale “avventura esistenziale”, rimanendo al contempo (e senza che vi sia una prospettiva privilegiata) un prodotto pensato per il mercato globale (budget consistente, finanziamenti stranieri, cast internazionale che mescola stelle di Hollywood, attori teatrali balcanici, commedianti italiani e semiesordienti). L’adesione appassionata dei realizzatori trasforma la ricerca formale nel tentativo di riprodurre nello spettatore quel medesimo torrente emotivo, attraverso effetti, sottolineature, frasi a effetto, esasperazioni che sfidano (sfiorano?) la retorica (la festa borghese in terrazza, con i movimenti di macchina che sembrano aderire al senso di nausea di Diego; il litigio fra i due amanti nella città bombardata; la recitazione sopra le righe di molti personaggi) e un uso della colonna sonora volutamente stridente (qualcuno ha detto “gratuito”). «Per raccontare la guerra dei Balcani ci sarebbe voluto Buster Keaton», commenta un Gojko ormai sulla cinquantina, mentre il giovane Pietro è costretto a ricorrere all’Iphone per scoprire il volto impassibile del comico silenzioso. E proprio da qui Castellitto comincia a raccontare il suo film a un uditorio che egli stesso immagina perplesso: «La battuta era nel libro e appartiene a Gojko, il poeta alcolico, dall’umorismo truce, checoviano, un comico-tragico alla Buster Keaton. In Film, di Becket, Keaton cammina sulle macerie. “E‘ stato più facile correre sotto le granate che camminare tra le macerie”, dice Gojko a Gemma». Eppure, «dove c’è distruzione, c’è voglia di vita, di un nuovo inizio. La guerra e la maternità qui stanno insieme: la letteratura può spingersi là dove la cronaca deve fermarsi. Questa storia ha coinvolto tutta la mia famiglia in modo radicale, non con voyeurismo, ma con un’intenzione profondamente etica: ci siamo messi al servizio delle storie di uomini e donne per i quali la guerra è un passato recente. Il rischio era quello di realizzare un’epopea, di essere superficiali; abbiamo raccontato la storia di un gruppo di ragazzi farneticanti, un’interrotta storia d’amore. La fiaccola che si accende con le Olimpiadi dell’84 è la fiammella che attraversa tutto il film, la storia di una donna circondata da uomini buoni. La versione originale del film durava oltre quattro ore, il lavoro di riduzione è stato intenso», commenta Margaret Mazzantini. Nessun dubbio sui due attori protagonisti: «Penelope Cruz è un’amica e, dopo aver letto il copione, ha voluto a ogni costo interpretare Gemma. La sua fisicità prorompente rende ancora più straziante la scoperta della sua sterilità; ha saputo infondere nel personaggio la propria luce. Non abbiamo mai pensato ad altri che a Emile Hirsch per il ruolo di Diego, è intenso, coinvolgente, quasi un eroe shakespeariano. Abbiamo fatto molti provini agli attori bosniaci e siamo felici della partecipazione di Jane Birkin (la psicologa) e di Luca De Filippo (il padre di Gemma). Alla fine il film, con il suo cast multietnico e le sue tre lingue, assomiglia un po’ alla Sarajevo cosmopolita del periodo precedente la guerra. Non ci interessava riprodurre uno stereotipato patetismo balcanico, il nostro è un film che galoppa verso la luce».

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