Uscito negli states come film natalizio, il franchise ideato da Jay Roach passa nelle mani di Paul Weitz e scatena una lunga serie di stroncature ben sintetizzate dalla posizione del Catholic Review; per l’organo di informazione dell’arcidiocesi di Baltimora Little Fockers è un film lurido, volgare e con un umorismo da caserma; mentre sulle pagine della stessa rivista True Grit dei fratelli Cohen viene considerato come una colta rilettura della cultura americana attraverso riferimenti biblici, personaggi archetipici e i tratti di una realtà mitica.
Il cortocircuito tra le radici classiche di Weitz e la violenza iconoclasta del suo cinema offende l’occhio cattolico e lo spirito del Natale più di quanto non possa l’innocuo postmodernismo dei Cohen. Niente di più vero; il regista di American Pie, About a Boy e di due grandi commedie politiche come In Good Company e American Dreamz, acchiappa il formulario di una serie già collaudata e a rischio collasso e la riconfigura con lo sguardo di un grande Metteur en scène, quello di chi conosce perfettamente il ritmo di corpi e movimenti della commedia classica Americana e allo stesso tempo ne rivela tutta la forza incendiaria. Non è la demenza a catena del situazionismo Farrelliano quella di Weitz, ma è la forza tagliente del punto di vista che preferisce recuperare spazio e respiro dalla profondità di campo del cinema di Muriel Box, la regista Inglese più vicina per certi versi al duello anti-sentimentale tra i sessi che attraversa tutta la carriera di Preston Sturges e a cui Weitz sembra guardare come forza propulsiva di un racconto ferocissimo sulla disgregazione dello spazio familiare.
Come in Simon and laura, è il confine domestico lo spazio di produzione del senso che va in frantumi, disseminato com’è di trappole, doppi fondi, case che non si costruiscono mai, buche nel giardino, come quella davanti alla futura casa dei Fockers che mette insieme un concentrato di cinema americano di almeno quarant’anni, dai sogni di Mr. Blandings (anche quelli, fatti a pezzi) girati da Henry C. Potter agli scontri di altre famiglie attraverso i corpi di Harvey Keitel e Robert De Niro. Lo sguardo disilluso e puntato verso la morte nel percorso di formazione adolescenziale del bellissimo Cirque du freak, la spietata gerontocrazia che rende amarissima una commedia come In Good Company diventano in Little Fockers, titolo con una strana e irriverente suggestione Wyleriana, visione ancora più cinica sul luogo primigenio di tutte le violenze, quello familiare.
In fondo, la capacità classica e assolutamente fuori dal tempo di Weitz di lavorare sulle immagini, invece di capitolare nel vicolo cieco di un citazionismo fine a se stesso, si riappropria di uno spazio che forse ha vissuto quella forza fino al cinema di registi come Dante, Demme, Kasdan, Armitage, McBride, nel rapporto tra la cultura cinematografica classica e l’immaginario contemporaneo; Weitz è uno dei pochi autori Americani (e non solo) degli ultimi anni capaci di realizzare commedie politiche con un cinema di corpi e segni che rotola su se stesso mostrando la forza rutilante delle inversioni Wilderiane applicate al volgare contemporaneo; visione impudica e scorretta che nelle regole di uno spazio funzionalmente classico, consente qualsiasi tipo di violazione (di corpi, segni, sogni) scatenandosi in un deambulare anarchico sin dal primo incontro tra Ben Stiller e Jessica Alba, impegnati nell’esplorazione anale di un paziente in posizione da decubito, oppure in quel gioco di equivoci al limite della pedofilia dove il piccolo Focker assiste terrorizzato all’erezione traumatica del nonno mentre il solito Stiller cerca di placarla con un’iniezione.
Ma è forse nella parte centrale dedicata all’incontro con Laura Dern, la direttrice della Early Human School, l’asilo perfetto per una nuova classe dirigente in essere, che Weitz da fuoco agli esplosivi migliori nella sua visione senza speranza della famiglia Americana, sin da quell’immagine terribile di Obama che in una postura quasi papale si inchina verso un piccolo umano, incipit di un rutilante gioco di battute e autismi irresistibili dei corpi, che oscillano tra il motto di spirito e la scorreggia di un bambino. Little fockers per certi versi non è il miglior film di Weitz, lievemente intrappolato in alcuni residui della serie “ospitante”, come per esempio il gioco verbale sul cognome della famiglia di Stiller, da noi tradotto con un discutibile Fotter e riproposto più o meno in tutti i capitoli della serie insieme alla presenza obbligata di “Sfigatto”, ma è comunque una commedia di altissimo livello che mostra sin da subito la sua capacità di lavorare profondamente (e non solo in forma ludica) con il genere e soprattutto la sua diversità “politica” nel corpo di un classicismo ricco di aporie.