“Io non guardo quasi mai film, soprattutto quelli mainstream. Sono solo la solita storia presentata in modo diverso. Giocano con i sentimenti degli spettatori e li manipolano.” José Maria de Orbe
Aità è una creatura molto più vicina alla videoarte che al cinema. Sorta di docu-fiction su una casa basca del 1300 e sul suo coustode, è un film che parte casualmente (il regista ha ereditato l’edificio) e che, sempre casualmente, si sviluppa secondo contrapposizioni concettuali: la presenza e l’assenza di luce, la decadenza del presente contro l’opulenza del passato, il naturale contro il sovrannaturale, la creazione contro la distruzione, l’HD contro la pellicola, la vita contro la morte. Fitta di rimandi familiari e politici totalmente autoreferenziali o comunque indecifrabili, la non-storia procede per quadri: camera fissa, pochi dialoghi e qualche tocco di ironia. José Maria de Orbe è affascinato dalla luce, “la luce che dà vita, al film come agli esseri viventi”. Tutta l’illuminazione presente è totalmente naturale, ad eccezione del proiettore col quale frammenti di pellicole di archivio sulla società basca d’inizio ‘900 vengono proiettati sui muri della casa, per un buon quindici minuti di film. Perché? Perché mi interessavano. Ah, beh!
Aità è un film in cui non bisogna porsi domande, bisogna sintonizzare lo sguardo con quello infantile e affascinato del regista e lasciarsi incantare. Un’opera senza tempo e senza senso, che vuole interrogare il tempo e la luce ma in realtà dal tempo e dalla luce viene ammaliata. Un monumento a una Spagna del passato, che resiste nonostante le incursioni (anche letterali) della modernità. Per andre contro alla “manipolazione dei sentimenti” de Orbe crea un opera aperta, spalancata, libera, andando appunto contro all’idea stessa di cinema come arte in sé profondamente manipolatoria. “Quella casa ha un significato personale per me, niente che possa essere spiegato in maniera razionale”. Se sia lecito fare un film con queste premesse, questo è tutto da discutere.