Mark Swanberg è uno degli esponenti del cosiddetto movimento mumblecore: una sorta di neorealismo americano del terzo millennio, decadente e improvvisato, orgogliosamente indipendente, digitale. Protagonisti, quasi sempre, ragazzi trentenni. In Silver Bullets, psicodramma metacinematografico che tenta di rispondere alle critiche che in passato sono state mosse al cinema di Swanberg (provocatorierà sessuale e autoreferenzialità spinta), ci mostra un regista che dialoga con i suoi problemi con le sue inquietudini e sullo sfondo di una doppia storia di amore impossibile, selvaggia, confusa. Incomunicabilità, ricordi, passioni incontrollabili, crisi creativa, morte: il tema è ispirato da “Il Gabbiano” di Cechov (ma anche, più indirettamente, da “8 e 1/2”), mentre lo stile oscilla tra la videoarte e l’horror (soprattutto per quanto riguarda la colonna sonora, con l’indugiare su pochi temi musicali ossessivi). Film girato in low-budget (“10.000-20.000 euro circa”) Silver Bullets è un film “pesantemente indie” che dialoga costantemente con la tecnologia digitale, l’ingrandimento dei pixel, la gamma dinamica, il colore: nella confusione e nell’offuscamento lo sguardo desiderante spinge, cerca di espandere il quadro, di mettere a fuoco l’immagine, di ricercare il dinamismo dei sentimenti nella staticità dei long take e al di là degli ostacoli visivi (non c’è sforzo di comprensione senza ostacolo). La confusione è sistematica, l’anarchia della narrazione (assenza di sceneggiatura, attori non professionisti e dialoghi casuali, altro approccio artistico che il digitale stimola e incentiva), si fa manipolazione del linguaggio cinematografico, ad esempio nell’uso espressivo della musica mentale, o nei flash visivi. Registi per caso in un mondo digitale che si mettono a nudo, aprono il cassetto e lasciano entrare lo spettatore in un piccolo universo personale, intimo, come dei Cassavetes del terzo millennio. Questo capita di trovare ai festival cinematografici oggi. Uomini, individui con la camicia di flanella e senza alcun imbarazzo, che cercano un dialogo. Etichettarli è solo un escamotage commerciale, come ammette lo stesso Swanberg.