Famiglia nucleare austriaca, madre padre figlio e figlia. Il padre va a prostitute chiedendole di far finta di essere la figlia. Il figlio lo scopre. Crisi familiare. Punto. Questo è Still Life (Stilllieben). Da un incipit drammatico (benché certo non originale) il film si evolve nel nulla più assoluto. La ricostruzione del nucleo familiare, l’espiazione del peccato, l’indagine sulla presunta pedofilia del padre, l’accettazione psicologica della sua devianza: tutte le conseguenze che una narrazione simile richiederebbe sono soffocate, messe fuori campo. Lo snodo narrativo è praticamente solo uno, quello iniziale, potente. È nella delusione delle aspettative dello spettatore che il film trova la propria ragione di esistere e la propria potenza espressiva. Per tutto il film non succede praticamente niente. Compostezza dei gesti, occhi vitrei, battute ridotte all’osso e volti impenetrabili: tutto è all’insegna della repressione, la recitazione come la messa in scena.
Still Life è il racconto di uno stallo, di una sospensione post-drammatica, di uno stordimento, di un vuoto che nessuno dei protagonisti riesce a colmare né ad accettare. Un film breve e arido, in cui lo sguardo cerca l’azione e trova apatia. E un’operazione cinematograficamente azzardata: annoiare lo spettatore per poi fargli capire, nella geniale scena finale, che è proprio dalla noia e dall’assenza di azione che nasce il dramma. Un’opera per certi versi molto simile a “4 minuti e 33 secondi” di John Cage, un silenzio di 75 minuti. Coltiviamo la speranza (vana?) che arrivi sugli schermi italiani.