“Perché mi tenete dentro questa volante?” “Beh, ti rendi conto che il tuo abbigliamento è un po’ strano?” “Certo che me ne rendo conto!”
Prima scena: Naomi Uman, artista visuale newyorkese di origini Ucraine, si taglia i rasta rasandosi a zero. Stacco. Seconda scena: Naomi è nel suo appartamento, dice che vive da sola, che fuori fa freddo e che sta di merda. Stacco. Terza scena: Naomi è in Ucraina, alla ricerca delle sue radici etniche e spirituali (ebrei chassidici) nella sua città omonima (Uman’, appunto). “VIDEODIARY 2-1-2006 TO PRESENT” è un’opera pazzesca, un’esperienza visiva unica, un film che non sa di essere tale e che da sorta di confessionale (“quando sono sola parlo con la mia videocamera, la chiamo Mathilda”, confessa l’autrice) si fa progetto organico e sconfina nella sociologia visuale, si trasforma in denuncia sociale e ridiventa confessione intima nel non-finale. Videodiary è un B-side project di progetti più importanti, un riempitivo di momenti morti, un arcipelago di frammenti di vita e riflessioni casuali che si riassembla sugli schermi della Viennale e dà vita a uno spettacolo che ha la sua ragion d’esistere proprio nel suo essere mutante e inconcludente. Tra le ansie di una personalità fragile che arriva in un contesto sconosciuto e nel quale non riesce a comunicare (un piccolo paese ucraino, dove Naomi Uman vive tuttora), spuntano immagini di pellegrinaggi spirituali e cene tra compaesani. Videodiary è una messa a nudo, tesa tra la voglia di andarsene e il desiderio di essere accettata dalla comunità, tra la malinconia e la soddisfazione cercata nella soluzione di problemi pratici (piantare carote, curare la scabbia del cane, trovare della marijuana). In tutto questo si inseriscono immagini shock di ebrei che, nel mezzo di un loro raduno, cacciano Naomi, travestita da maschio per poter filmare il rituale, con una pistola (seguono riprese dall’interno della volante nella quale Naomi viene rinchiusa). Esperimento nato per descrivere la vita di un’immigrata americana in Ucraina, Videodiary è un video girato orgogliosamente di merda da una ribelle in cerca di una causa e, contemporaneamente, da una donna insoddisfatta in cerca di radici. È un blob in cui qualsiasi cosa diventa qualcos’altro, quando appare un filo conduttore subito questo viene negato nella scena successiva. L’arte di questo video sta proprio nella casualità dei suoi abbinamenti, nello scorrere naturale degli eventi senza alcun nesso logico, senza alcuno stile filmico, senza alcun registro narrativo: cinema privato lo-fi che cattura e introduce lo spettatore nelle pieghe di un’esistenza surreale. E che incredibilmente, e questo è il vero miracolo, piace, e anche tanto. “Thank you for sharing your diary with us!”: questo è quello che ha detto una spettatrice a Naomi Uman dopo la proiezione, interpretando perfettamente il sentimento dei presenti.