Roberto Andò adatta il suo romanzo, Il trono vuoto, per il cinema. Il film esce a dieci giorni dalle elezioni politiche, il cast è quanto di meglio (al momento) si riesca a mettere insieme in Italia, la satira politica venata di citazionismo chic fa sempre presa sulla platea, cosa manca? Nulla, c’è anche l’elogio della pazzia. Il tema del doppio esisteva, Gassman ne La pecora nera di Salce, 1968, ma lì la pazzia non era quell’ameno escamotage che, in mancanza di sane alternative, arriva a rimettere in corso un partito in picchiata vertiginosa. Lì chi finiva in manicomio era il candidato onesto.
Nel film di Andò si gioca la carta beffarda dei gemelli postmoderni. Non c’è il gemello buono e quello cattivo, c’è quello potente, ben ammanicato segretario del partito di opposizione in calo di consensi, e perciò depresso, e l’altro, pazzo, buttato fuori, evidentemente, dalla legge Basaglia e invisibile per 25 anni. Riappare in scena per prendere il posto del primo, in fuga alla ricerca di sè alla vigilia di un importante appuntamento elettorale. Sembra un modello plautino, una specie di commedia degli equivoci in cui il servus currens deve darsi da fare per risolvere i problemi. Nella fattispecie il servus/portaborse è Valerio Mastandrea che però, con la sua aria da cane bastonato, nulla ha dell’esuberante malizia del servo latino.
Dunque, mentre Servillo 1 (quello con i capelli tinti) se ne sta in incognito a Parigi a recuperare amori (la Valeria Bruni Tedesco), passione per cinema (che non frequenta da almeno tre anni e il marito della Valeria, naturalmente giapponese, è un regista all’apice della carriera) e letteratura, da cui l’ha distolto la politica, Servillo 2 (quello senza tintura) si cala perfettamente nella parte che Mastandrea gli affibbia, e riporta la letteratura sul palco della politica, con citazioni a manetta (Brecht è il prediletto, naturalmente). Il culmine del gradimento lo raggiunge con il comizio incentrato sulla parola “passione” (e a qualcuno torna in mente I care, chissà perché?), gioca chaplinianamente a sparire dietro mappamondi sotto gli occhi di un divertito Presidente della Repubblica, recupera un Fellini che si fa intervistare molto indignato sulle sorti del cinema italiano (e ne aveva ben donde!), e così l’attacco satirico ai gangli del potere corrotto e truffaldino, che monopolizza a tempo pieno i media e sta per essere rieletto, è fatto.
O meglio, Andò crede che sia fatto. Noi abbiamo molte riserve. Anche solo restando alla sostanza cinematografica, dimenticando metafore e messaggi subliminali (?) Viva la libertà è un film irritante, in cui Servillo tenta, mal riuscendo, la carta di una comicità surreale e ammiccante, in definitiva intellettualistica e snob. L’elogio della pazzia è altro, bastava chiedere a Erasmo qualche delucidazione in merito.