Warrior è un film scontato, pieno di cliché, che si lascia intuire prima ancora di prendere forma, che crea aspettative e le mantiene tutte. Prodotto mainstream, preconfezionato, da multiplex, da popcorn e coca-cola. Warrior è un vero capolavoro. Gavin O’ Connor confeziona un film che, più che costituire la base di future evoluzioni della settima arte, rappresenta un punto di arrivo, del cinema sportivo come del cinema tout-court; è un classico, popolare e imperituro, che assorbe tendenze e influenze pregresse senza alcun desiderio di stupire, di destabilizzare, di scomodare. È una sorta di doppio Rocky convergente, bipartito e narrativamente convenzionale: presentazione dei personaggi, colpo di scena (sono fratelli!), evoluzione delle loro vicende personali e poi via sul ring. O’ Connor si muove nel classicismo, ma contemporaneamente anche nella contemporaneità, intesa sia a livello stilistico (l’uso intelligente della steadycam, il lungo split screen d’intermezzo che funge da intelligente acceleratore narrrativo) sia a livello tematico. L’America nella quale i due protagonisti si muovono, infatti, è quella obamiana, i cui sogni canonici (casa – famiglia – ricchezza) vacillano da un lato per la crisi economica, dall’altro per l’agonia e per il trauma collettivo di una guerra senza fine, quella irachena. Su un impianto da film sportivo contemporaneo, O’Connor innesta i temi tradizionali del cinema statunitense: il reinserimento dei reduci di guerra nel tessuto sociale, la paura di non poter garantire una vita dignitosa ai propri figli, la lenta ricostruzione di un nucleo familiare distrutto, la sfida contro l’impossibile, la giustizia che vince sulla forza bruta, la paura del confronto, l’inadeguatezza nei confronti delle proprie aspettative. Tra tutti gli sport, la boxe sicuramente si configura, da Toro Scatenato in poi, come la forma spettacolare più fertile per mettere in scena la lotta dell’uomo singolo contro il mondo. E Warrior lo fa parlando con corpi, gesti, sguardi, luci. Ogni cosa è perfetta, ogni particolare crea significato, dalla sceneggiatura al montaggio finale, dai chiaroscuri ai colori all’armonico alternarsi dei piani di ascolto durante i combattimenti. E con un’interpretazione ottima di Tom Hardy, oltre altre a quelle di Nick Nolte e Joel Edgerton, rivelazione del nuovo cinema americano, eccessivo (come in Bronson) ma proprio nella sua eccessività teso all’estremo tra una rabbia ineffabile e la compressione della stessa, sorta di bomba a orologeria che fuori dal torneo si contiene in un mutismo assordante, camminando ingobbito, ma sul ring sfoga la sua rabbia in maniera istantanea, con K.O. fulminei, anche a livello narrativo. Ritmo, linee, corpi, direzioni, dinamismo, dettagli: il film di O’Connor ci dice le stesse cose di sempre con lo stile di sempre, ma questo pensiero svanisce lentamente, lasciando spazio al pathos più sincero. D’altronde, anche lo sport è lo stesso da sempre. E quel piccolo gesto con cui i due fratelli si riappacificano, quel colpetto sulla spalla, mostra come la spinta di contenimento della tensione drammatica sia costante e pienamente consapevole. E infatti il finale, in cui la sublimazione del dramma nel combattimento visivo si fa totale, non necessita di alcuna coda.