Miike Takashi si appropria dell’anime di Tatsuo Yoshida prodotto dalla Tatsunoko nel 1977 e approdato sugli schermi televisivi Italiani nei primi anni ’80. Operazione molto simile a quella che il regista giapponese aveva messo insieme a partire da un “classico” per l’adolescenza come Yôkai daisensô, non cambia il target di riferimento ne la capacità di Miike di inventarsi un universo rutilante di mutazioni all’interno di uno scenario apparentemente obbligato. E’ un’infedele fedeltà all’originale quella che Miike persegue, dove i toni e i colori del suo cinema non perdono forza e capacità inventive. Yattaman risulta un film molto stimolante proprio nella rottura dell’argine pop che lo contiene, un involucro che Miike fa a pezzi introducendo una logica visionaria al posto di un’organizzazione razionale dello spazio e del tempo. Come nel già citato Yôkai daisensô, si fa uso massiccio di green screen, agglutinazioni visive, materia immaginifica che esce dalla quadratura dello schermo; la superfice ne viene irrimediabilmente intaccata, e qualsiasi supposta analogia sia rintracciabile tra la versione televisiva e la sintesi Miikiana, paga il prezzo di una vera e propria per-versione perpetrata ai danni del testo originale. I livelli sono molteplici, ma non è certo possibile far finta di niente di fronte all’erotismo strisciante e ludico che attraversa tutto il film, una delle tracce del lavoro borderline portato avanti dal regista giapponese; battute che giocano con il concetto di Identità, il solito brulicante sotto-universo di personaggi luridi, l’orgasmo di uno dei mecha robot che copula con il suo avversario meccanico, si strofina i capezzoli e spara bombe a forma di tetta, Kyôko Fukada rappresentata esplicitamente come icona di perversione pop, fanno di Yattaman uno dei film più liberatori, scorretti e divertenti di Miike Takashi.