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Good Pretender di Maziar Lahooti (Usa)
Sempre dall’Australia Maziar Lahooti con Good Pretender gira un bel prodotto da Sundance. La storia di una ragazzina (eccezionale), appassionata del film Terminator2, che sfugge alla realtà della sua triste vita quotidiana, condizionata dai drammi familiari, raccontando in giro che il padre reduce di guerra è in realtà un androide. Un po’ di retorica ma risolta egregiamente (altro che Sofia Coppola). Davvero perfetto, senza sbavature, ottimamente interpretato, pronto per essere esteso a due ore. Bello anche Kiss dell’australiano Alex Murawski che racconta le dinamiche di un trio di amici rivoluzionate da un bacio dato per gioco. Una storia semplicissima, comune, che Murawski però filma con una delicatezza ed una sensibilità tali da sfuggire ad ogni grossolanità, sempre dietro l’angolo in questi casi. L’uso delle musiche, i tagli delle inquadrature, i colori e per ultimo la citazione diretta da Hou Hsiao-HSien, dicono di un autore tutt’altro che superficiale. Incomprensibile, invece, lo svedese Mission: Pascal di Johanna Pyykkö, dove due ragazze si danno il compito d’iniziare al sesso un coetaneo schivo e solitario, entro 24 ore, anche contro la sua volontà. Premesse da American Pie al femminile ma svolgimento riflessivo (un po’ alla Suxbad), quasi serioso. Uno sguardo sul vuoto esistenziale di una generazione, di un epoca, che non diverte affatto ma inquieta profondamente anche per le soluzioni che adotta (l’incidente col cervo). Consapevole o meno che sia. Praticamente un lacrima movie il corto Portoricano La Carta di Angel Manuel Soto Vazquez. Bambino introverso e papà in galera: commozione troppo facile.
Finale lacrimevole anche per la coproduzione anglo-portoghese di North Atlantic di Bernardo Nascimento, storia del dialogo via radio tra il solitario controllore di volo del piccolo aeroporto di un’isola, e di un pilota alla deriva. In definitiva buon prodotto medio, ben confezionato. Sfuggente è l’americano Sold di John Irwin, che parte come film di denuncia per approdare poi a lidi action, con echi di Tarantino (circa Jackie Brown) da tutte le parti. Una giovane giornalista, mentre indaga sul trattamento riservato agli immigrati clandestini, viene rapita da trafficanti d’esseri umani. Ipertrofico, didascalico, retorico, ricco e più attento alle grazie della bella protagonista, piuttosto che alla coerenza narrativa. Inutile fingere, però: questo genere di cose gli americani le sanno fare ed il film mantiene ritmo e tensione, costa ammetterlo ma funziona. Dalla Bolivia arriva El General di Diego Pino Zamora, un film per ragazzi che indaga gli effetti ed il senso della guerra, visti dagli occhi di un bambino che ama immaginarsi come il grande generale alla guida di un esercito. Gli esiti dei suoi giochi saranno drammatici ma tutto è affrontato con semplicità e leggerezza. Imperfetto ma gradevole. La guerra reale, in un medio oriente generico, irrompe con Turkish Coffe di Thiago Luciano dal Brasile, che narra lo scontro tra una donna civile araba ed un militare francese che, convinto si tratti di una terrorista, la rapisce chiudendola in casa diverse ore, sottoponendola una pressione che sfocia quasi in uno stupro. E’ l’occasione per stilare la tassonomia degli stereotipi su conflitti e soldati, religione e terrorismo, senza mai riuscire davvero a scavare a fondo. Messinscena poveristica e dialoghi ed attori non all’altezza. A trionfare è l’antiretorica della retorica dell’antiretorica: veltroniano. (continua nella pagina successiva…)