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Then and Now di Paul Johannessen (Giappone)
Qualche perplessità destano invece i reportage documentaristici (ma qui il confine con l’opinione personale diviene davvero labile), peraltro di qualità molto elevata. Come la produzione giapponese di Then and Now di Paul Johannessen e l’inglese Skatesistan: To live and skate Kabul di Orlando von Einsiedel. Nel primo le splendide e terrificanti riprese del Giappone post tsunami del 2011, fanno da sfondo ai racconti della gente del luogo che, con volontà ed abnegazione, tenta di riportare la disperata situazione quanto più prossima alla normalità. Nel secondo viene descritto il mondo degli skaters di Kabul e del progetto Skatesistan, attraverso il quale si tenta di offrire un’alternativa, con lo sport di strada, alle generazioni più giovani vittime innocenti della guerra in Afghanistan. Ciò che lega i due documentari è la scelta di ripercorrere gli eventi storici attraverso situazioni minime, nelle loro enormi complessità, sottolineando la forza dei singoli e delle loro comunità, senza però mai ripercorrere i fatti, senza formulare teorie e soprattutto senza riconoscere responsabilità. In Then and Now, ad esempio, si parla della carenza degli aiuti da parte del governo ma mai della mal gestione dell’affare Fukushima. In Skatesisan non si accenna neanche per un attimo alle sorti che potrebbero avere questi ragazzini, dalle buone intenzioni, certo, ma in una società che è e rimane dilaniata da un’inaccettabile guerra coloniale. Tantomeno si accenna alle motivazioni ed ai responsabili del conflitto. Tutto è focalizzato sull’emotività, il ché potrebbe essere anche un bene ma è troppo limitativo, e la speranza, che è un concetto molto più dubbio di quanto si voglia credere. Sempre Orlando von einsiedel meglio fa in Aisha’s song, dove pur partendo da assunti non dissimili dai precedenti, descrivendo la condizione della Nigeria di oggi attraverso il racconto personale di una donna priva di un occhio, riesce a far assumere alla storia narrata gli aspetti di un apologo universale sulla discriminazione e sul riscatto sociale. Anche qui, si può non condividerne la logica di fondo ma è comunque un lavoro ottimamente girato e con alcune soluzioni (i rumori della città e delle macchine da lavoro che si animano in un ritmo tribale) non nuove ma intelligenti. Sul versante docu-fiction si ritrova il brasiliano Cine Rincao di Fernando Grostein Andrade e Fernanda Fernandes. Tratto da una storia vera, traspone su video l’etica della rivista Colors in seno alla quale è stato prodotto. La drammatica esperienza di un ragazzino di 15 anni sopravvissuto ad un colpo di pistola, diventa metafora sul potere salvifico del cinema. Narrato tra sequenze ricostruite all’uopo e la voce del vero protagonista della vicenda. Al centro, ancora una volta, è la forza del singolo che si risolleva, grazie alle proprie forze, dalle abiezioni della realtà. Bene ma non è un film. (continua nella pagina successiva…)