Home alcinema Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow (Usa, 2012)

Zero Dark Thirty di Kathryn Bigelow (Usa, 2012)

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Kathryn Bigelow riprende il discorso sul conflitto in medio oriente, già iniziato con The Hurt Locker, affidandosi ancora una volta alla penna del giornalista Mark Boal (anche sceneggiatore e produttore), da un articolo del quale era stato tratto quel film precedente. Se lì la guerra veniva descritta nel preciso atto del suo compiersi, qui la parte rilevante del racconto viene affidata alla ricostruzione delle indagini svolte dalla CIA, nei dieci anni successivi all’attentato dell’11 Settembre 2001, nel tentativo di rintracciare e catturare il nemico pubblico numero uno d’America (almeno fino a quel momento): Osama Bin Laden.
La vicenda viene narrata attraverso la figura antireale della funzionaria che tenacemente, in totale segretezza, seguendo una pista più e più volte ritenuta inaffidabile, sin’anche del tutto errata, fu capace da di scovare, dietro una scrivania, il nascondiglio dello sceicco del terrore, permettendo l’avvio della cosiddetta Operazione Geronimo. Un ectoplasma governativo passato alla storia come Jen e che qui prende il nome di Maya ed il volto di Jessica Chastain.
Attraverso una narrazione serrata, soprattutto nella prima parte, Bigelow descrive il mondo dell’intelligence dall’interno; un mondo composto da figure (in)umane sintetizzate in sagome ad una dimensione: quadri medi del segreto di stato, burocrati della tortura; talmente assorbiti dai propri rispettivi ruoli da assumerne atteggiamenti, movenze, sintassi, a dispetto di qualunque emozione che non sia, giusto appena, fugace: parti di un unico corpo-macchina, agente per impulso di una mente superiore. Capaci di massacrare un uomo legato, qualora lo imponga la direttiva governativa repubblicana, ed ugualmente capaci di ripiegare in lavori d’ufficio al mutare  della linea dirigenziale. Full Metal Jacket in colletto bianco che eseguono solo degli ordini; che osservano l’intervista al presidente democratico Obama, a 60 Minutes, in cui s’impegna a “restituire all’America una statura morale” condannando la tortura ed i fatti incresciosi di Abu Grahib, con l’impassibilità dell’impiegato che riceve un nuovo lavoro da compiere, senza mai discutere il fatto che questo sia in contraddizione con quello svolto fino a quel momento.

Il personaggio di Dan, ottimamente interpretato da un Jason Clarke in stato di grazia, riassume perfettamente le contraddizioni di un film che mira ad una già impossibile oggettività documentaria ma lo fa attraverso uno sguardo, che recando in sé i segni di una cultura estremamente patriottica, stenta a farsi realmente obbiettivo e rischia di ridursi in una propaganda retorica da imperialismo culturale, che disturba, in varie occasioni, anche lo svolgimento del racconto. Dan s’impiega in prima persona in interrogatori brutali e sevizie da tentato omicidio (il famigerato waterboarding) pur mantenendo un’apparenza umana, quasi empatica, quasi avvolgente; eppure non discute, esegue e basta. Salvo poi amareggiarsi per la morte delle sue scimmiette (in gabbia anch’esse, però, tanto da creare uno strano parallelo tra esseri viventi in catene) ed optare per un lavoro d’ufficio perché “ho visto troppi uomini nudi…”. Maya, invece, demanda il pestaggio crudo alle mani del suo assistente in divisa.
La protagonista, non risulta, infatti, meno incoerente: freddissima e determinata un attimo prima, nervosa e sconfortata subito dopo. Da classica eroina bigelowiana, assume in tutto i principi del potere maschile, filtrandoli attraverso alcune di quelle qualità che comunemente si associano all’eterno femminino (l’insistenza, la risolutezza, l’abnegazione), ripiegando però in un’osservanza assoluta al metodo, senza che alcuna autentica specificità di genere possa realmente emergere, discostandosi così parecchio da una pur vaga idea di femminilità e men che mai di femminismo.
La camera la segue senza mai, realmente, spiegare i motivi delle sue azioni, lasciando tutto all’interpretazione dello spettatore ma dando degli spunti ben evidenti perché questa risponda alla precisa volontà dell’autrice. Nondimeno, l’ostinazione con la quale Maya persegue il suo scopo non è mai del tutto chiarita: un suo personale trauma legato al crollo delle torri gemelle? Una pervicacia carrierista? La sua caparbietà è ricerca di giustizia, vendetta personale o Maya è solo un costrutto filmico incarnante il senso di rivalsa di una Nazione intera alla disperata ricerca di una rielaborazione del lutto?

Bigelow non vuol dar risposte. Apparentemente. Perché dietro il filtro autoriale, c’è una presa di campo che non può essere sottovalutata: le premesse dello scontro non vengono mai ricostruite fedelmente; rintraccia il punto zero della vicenda nel fatidico 11 Settembre, senza mai far riferimento ad alcuna premessa ma soltanto giustificando le conseguenze; il termine jihad fugge via quasi per caso, riducendo lo scontro culturale ad una vaghezza disarmante. E quando il ricco kuwaitiano si vende per una Lamborghini, riemerge il palese sentire discriminatorio di una cultura egemone: lo stile, che non è impersonale, tradisce un giudizio che supera la volontà cronachistica: il problema non è più il cosa, che è perfettamente attendibile, coerente, realistico, ma il come viene restituito in immagine (e l’immagine è sempre politica). Le vere cause di una sordida guerra neocoloniale vengono completamente ignorate e quando l’alto dirigente CIA, tuoneggia al suo staff la pretesa della resa dei conti, l’ambiguità raggiunge il climax. Il testo risponde, pienamente, al principio da real politìk per cui tutto è concesso se è per un fantomatico bene nazionale: anche la tortura, anche la violenza più efferata, anche l’azione più esecrabile rispondono ai valori di uno Stato che fonda i suoi ordinamenti sul principio della vendetta istituzionale, sulla pena di morte, sul diritto all’autodifesa, sulla guerra come male necessario.

Bigelow indaga, è vero, i recessi più ambigui del sistema spionistico ma, ancora, che il gran capo della Central Intelligence Agency sia musulmano e preghi rivolto alla Mecca nel suo ufficio a Washington o che il teatro di guerra sia un derelitto terzo mondo allo stremo o che i volti mediorientali riassumano sempre il dolore di una società scossa profondamente dall’interno ed appaiano umani ed invitino all’empatia, risuona più come una concessione al politicamente corretto che non è il vero cuore del film. Zero Dark Thirty non è un atto d’accusa; non è una pellicola d’impegno civile; vuole riportare a galla informazioni segrete, mettendo in scena dati controvertibili (e la scritta che apre il film sembra già implicitamente ammetterlo), ma a riprova di un’inefficienza che giudica, questa sì, colpevole nei confronti di una patria che invoca giustizia.
Quello che è messo in scena è uno spy thriller con tutti i crismi, che usa i segni della storia contemporanea come mezzo, amalgamandoli poi allo stile robusto, ipertrofico e muscolare della sua autrice. La quale realizza, quindi, un opera che è di puro intrattenimento e che non cede un attimo per tutti i suoi 157 minuti. Con un taglio spettacolare ed una profondità di campo, capace di rendere panoramici anche gli interni, che è propria del suo stile visivo da sempre, Bigelow esegue il suo lavoro con estrema fermezza non indietreggiando, come s’è visto, neanche davanti le ambiguità, le contraddizioni, la durezza, il perturbante; riuscendo, però, ad allontanarsi dal modello hollywoodiano solo a tratti (risapute le sequenze che avviano all’attentato alla base segreta, in cui ogni dialogo, ogni volto, ogni inquadratura ha già lo stigma della svolta drammatica). Il suo è lo sguardo di una Paese che anche nelle sue vesti più progressiste raramente abbandona l’orgoglio di bandiera.

Eppure, a testimonianza della molteplicità di interpretazioni a cui si presta Zero Dark Thirty, la regista di Point Break, con l’incursione nel covo di Bin Laden ad Abottabad, gira il finale che non ci si attenderebbe: avvolto in un buio carico di tensione, opportunamente spezzato dalla visione ad infrarossi delle videocamere dei marines; frenetico, convulso, frammentato ed emotivamente coinvolgente ed avvincente; in cui i soldati divengono figure ipertecnologiche, tutte muscoli ed acciaio, a metà tra il commando di Alien – Scontro Finale (dell’ex marito James Cameron) ed una partita a Call Of Duty, si smonta poi proprio al momento dell’uccisione del cattivo. Quasi casuale, commentata dal pianto ininterrotto dei bambini presenti nel rifugio, dai volti sorpresi degli stessi militari, dalla stessa location spoglia e povera (ma colma di computer ed archivi) in cui i terroristi e le loro famiglie appaiono niente più che comuni ed inermi uomini in abiti non occidentali. L’azione si riduce, viene svuotata di ogni eroismo e la vendetta si compie in una caoticità che risuona, ossimoricamente, come un silenzio profondo. Lo stesso in cui si avvolge Maya, il cui pianto in chiusura suggella con un enigma (commozione? ricordo? sfogo?) una pellicola di grande suggestione ed enormemente controversa.

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