domenica, Dicembre 22, 2024

A First Farewell di Lina Wang – Berlinale 69 – Generation Kplus: recensione

Sulle pesanti violazioni dei diritti umani perpetrate dal governo centrale Cinese nella regione autonoma Uigura dello Xinjiang c’è stato un assordante silenzio anche da parte della comunità musulmana. La storia del controllo cinese sistematicamente centralizzato sulla “seconda repubblica del Turkestan” supera i settanta anni e fa parte della più ampia repressione di tutti i gruppi etnici di cultura non Han. Gli Uiguri sono una popolazione turca, devota all’Islam e quella con la Cina è sempre stata una relazione “distante”, considerate le 1400 miglia che separano la regione da Pechino. Dopo la centralizzazione del potere del 1949 da parte del Partito Comunista Cinese, il movimento indipendentista verrà messo a dura prova, per l’afflusso massivo di cinesi di etnia Han e per le continue e provocate tensioni. L’ondata repressiva più recente risale a nove anni fa e coinvolge la capitale dello Xinjiang, Urumqi. Duecento persone morte durante gli scontri e una successiva militarizzazione della zona hanno portato all’interruzione di tutte le comunicazioni via web, cancellando letteralmente dalla rete parole come Xinjiang, Urumqi, Uiguri. Da questo momento in poi, soprattutto in seguito alla politica securitaria di Chen Quanguo, nuovo segretario del partito nella regione, il controllo è diventato pervasivo con l’impiego di un sofisticatissimo sistema tecnologico di controllo e l’allestimento dei cosiddetti centri di rieducazione, dove nella tipologia tra questi più vicina al carcere, con la scusa della prevenzione contro il terrorismo islamico vengono trattenute più di tre milioni di persone musulmane che non hanno commesso alcun crimine. Nonostante la flagrante violazione dei diritti umani nella regione dello Xinjiang, la comunità internazionale e soprattutto quella musulmana non ha alzato la voce come al contrario è successo per l’etnia Rohingya nel Myanmar, un silenzio comprato dalla Cina e che come accade sovente, ha ragioni economiche, considerati gli interessi del dragone in tutto l’asse commerciale dell’Asia Centrale e del Medio Oriente.

 

Senza entrare nel dettaglio dei successivi “ricatti” subiti dalla Turchia da parte della Cina che hanno sostanzialmente causato il disinteresse della nazione nei confronti della minoranza Uigura, ci premeva questa breve e insufficiente introduzione, per contestualizzare il primo film come regista di Lina Wang, classe 1987, nata a Shaya nella regione dello Xinjiang e laureata in comunicazione all’Università di Pechino.

A First Farewell (Di yi ci de li bie), si ambienta in un villaggio Uiguro dedito alla coltivazione del cotone, all’attività rurale e all’allevamento, seguendone la vita quotidiana, tra le aspettative, i rituali del raccolto e l’educazione dei figli. Attraversato da un pervasivo sentimento della perdita, contrappone alla rigorosa prossimità pittorica della natura, la traumatica resistenza di un’eredità generazionale dalle radici arcaiche.

Quando Isa (Isa Yasan) raccoglie le provviste preparate per la madre malata dalle anziane del villaggio, gli uomini sullo sfondo parlano con un giovane che ha deciso di andare a vivere in città. Un dissidio che emerge dai margini dell’inquadratura, ma che rimarrà costante per tutto il film della Wang, sospeso tra la necessità di garantire continuità alla tradizione e al contrario, dissolverla nella costruzione di un futuro diverso per le nuove generazioni.

Isa è negli anni della sua pre-adolescenza, accudisce la madre sorda, incapace di parlare e malata, ridotta in quelle condizioni dopo aver contratto la meningite. Vive con il padre e il fratello maggiore, con cui mantiene un rapporto di forte unità, soprattutto quando questo lascerà la regione per cercare fortuna altrove. Quando la donna, non vista, scomparirà tra i boschi del villaggio, il giovane Isa percorrerà un’area desertica e gli spazi circostanti per trovarla, insieme alla sua migliore amica Kalbinur (Kalbinur Rahmati) e al piccolo fratello di questa.

Al cinema esperienziale del primo Kiarostami, la Wang aggiunge una serie di contrasti che arricchiscono le connotazioni elegiache del racconto di formazione, lavorando sulla persistenza dei gesti e dei rituali, mentre questo stesso retaggio viene costantemente minacciato da tutti quei segni che indicano l’avanzare del sistema educativo cinese, come agente principale di disgregazione.
Non è ovviamente così netta e didascalica la giovane regista Uigura, perché osserva alternativamente le paure di alcuni e le speranze di altri, soppesando i rischi di un’economia fragile, ma anche l’incredibile coesione di una collettività minore, fortemente sodale e ancorata ai valori della terra.

Le riflessioni sulle stagioni della vita, sulla necessità del cambiamento e sulla capacità di dire addio, diventano allora qualcosa in più di una contemplazione della natura e dei rapporti umani, come suggerirebbe la tradizione della poesia Tang, a cui Lina Wang si riferisce in modo esplicito, ma anche con alcuni temi di quella stagione poetica, disseminati lungo tutta la durata del film.

Se il motivo della separazione, da quella coniugale fino al modo in cui influisce sulle amicizie, viene riflesso attraverso una serie di frammenti di vita che ne raccontano la profonda partecipazione e sofferenza, desumendone il tono dalle caratteristiche descrittive di autori come Li Bai, Du Fu, Du Mu, Bai Juyi e Li Shangyin; la citazione del frammento di Wang Wei durante una delle giornate di scuola di Isa e Kalbinur più che una dichiarazione di intenti, assume il senso di uno strumento di ri-educazione in mano al regime.

La differenza è flagrante e trova alcune significazioni precise. Per esempio nel racconto di separazione dei genitori di Kalbinur e nelle reazioni giocose di questa tra i campi di cotone, mentre tutte le sequenze che riguardano l’apprendimento del Mandarino, diventano a poco a poco il segnale di uno scollamento innaturale dalle proprie radici. La lingua turca uyghur, condivisa insieme al lavoro, il cibo e la musica, che collide con quella cinese appresa con sistemi militari.  Il volto di Kalbinur solcato dalle lacrime mentre viene scortata a scuola, a causa del suo scarso rendimento,  mentre Isa rimane ancorato ai ritmi e alla scansione stagionale del villaggio. Oltre al passaggio dall’infanzia all’adolescenza, c’è allora il senso profondo di una comunità che rischia l’estinzione e che cerca coesione in quell’unità tra rito e lingua, minacciata dall’inesorabile avanzamento della modernità, che tutto assimila e cannibalizza.

Ecco perché la struggente ciclicità Zen dischiusa dai versi di Wang Wei, che incorporano la filosofia Buddhista del distacco, diventa elemento controverso quando viene veicolata dal programma concepito dal regime come strumento educativo necessario per l’oblio e la dimenticanza. Lo scopo ri-educativo del sistema scolastico si rivela a poco a poco come inesorabile processo di cancellazione di tutte le identità culturali aliene. 

Lina Wang, oltre alla ritualità che scandisce l’identità collettiva del villaggio,  insiste su altri oggetti materiali, sono certamente gli strumenti e la gestualità legata al lavoro; ma anche le lettere, i disegni infantili, la sopravvivenza di una comunicazione non ancora im-mediata che racconta la distanza e la perdita con una diversa percezione del tempo.

Sradicata da quella durata empirica che le consentiva di perdersi tra le dune di sabbia in un dialogo ludico con la natura, Kalbinur sperimenta un vero e proprio spossessamento, tanto che a quelle immagini dolorose, Lina Wang sovrappone il frammento più scuro del suo film, quello dove una tempesta di neve occupa l’inquadratura e un disperato Isa in sella al suo asino, cerca l’amata capretta dispersa nella tormenta.  Ed è proprio in questo rapporto spesso non riconciliato, ma sempre vivissimo, tra paesaggio e personaggi, che l’essenza di quella poesia ritrova una strada universale, rappresentando il ruolo della natura e l’ostinazione dell’uomo di interrogarne l’indifferenza, fuori dalle dinamiche progressive dell’economia al potere.
Su questa valenza si insinua la magia di un cinema epigrammatico, sull’irriducibilità dell’esperienza. 

Michele Faggi
Michele Faggi
Michele Faggi è il fondatore di Indie-eye. Videomaker e Giornalista regolarmente iscritto all'Ordine dei Giornalisti della Toscana, è anche un critico cinematografico. Esperto di Storia del Videoclip, si è occupato e si occupa di Podcast sin dagli albori del formato. Scrive anche di musica e colonne sonore. Si è occupato per 20 anni di formazione. Ha pubblicato volumi su cinema e nuovi media.

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