” Le sue tracce si sono perse, come le tracce di tutte quelle persone che qui sono state torturate e uccise senza pietà. Non si vede né si sente più niente. Tutto è così pulito e ordinato. Lì c’è una corona deposta da un politico ipocrita per rimettersi la coscienza a posto e tutto questo è già stato fotografato migliaia di volte. E’ come se li sentissi quelli che si sono mossi qui in coda e hanno scattato, una dopo l’altra, le loro belle foto, come i cani che alzano la zampa perché un altro ha già pisciato lì … tutto ciò che vedo in questo paese mi nasconde qualcosa … la Germania è un libro dalle pagine strappate” (E.Reitz, Die Zweite Heimat, 11)
Non confonda il nome, Napoleone non c’entra. Jacques Austerlitz è un professore di storia dell’architettura protagonista dell’unico romanzo del 2001di W.G. Sebald.
Perfetta corrispondenza fra le sue peregrinazioni di uomo sapiente e solo fra Praga, Theresienstadt, Parigi e Londra, alla ricerca del suo passato di bambino ebreo sopravvissuto alla famiglia deportata nei lager e le immagini in bianco e nero che il regista/documentarista ucraino Sergei Loznitsa gira con macchina fissa e rari cambi di postazione all’esterno e all’interno del campo di Sachsenhausen in Germania.
A pochi km da Berlino, solo trenta minuti di corsa in S-bahn, ai margini del lindo paesino dallo stesso nome si può visitare con modica spesa il primo centro di deportazione ed eliminazione del Terzo Reich, nato per dissidenti politici e poi esteso a tutti gli altri ben prima che la Soluzione Finale facesse dello sterminio un “ processo burocratico di distruzione ” (così lo storico Raul Hilberg di Burlington, Stati Uniti, definisce la Shoah in quell’insuperabile, unico monumento alla memoria che è Shoah di Claude Lanzmann
Da Austerlitz di Loznitsa promana la stessa angoscia che si prova leggendo Sebald, lo scalpiccio dei piedi strascicati sul selciato rimbomba nello stesso vuoto dei tempi in cui, a Sachsenhausen, i deportati facevano scarpe e la tortura era girare all’infinito intorno al bordo del campo per collaudarne le tomaie.
Ora si cammina ancora tanto, una massa di gente entra, gira qua e là, chiacchiera col vicino, mangia panini e beve da bottigliette di plastica, fa foto perché oggi tutto si fotografa, si fa selfie, perché oggi tutto va su WhatsApp, fa la faccia compunta, a volte, e appena si può va via vociando, passa per quel cancello che un mastro ferraio ha diligentemente forgiato col noto motto “ Arbeit… “ ecc. (l’uso a vuoto consuma, meglio lasciarlo a metà) e sotto quella scritta si scatta l’ultimo selfie con papà e mammà che sorridono pure.
Dunque il passato ritorna, come sempre, e quella macchina fissa è implacabile, Loznitsa conosce l’angoscia dello sguardo che tace quando non ci sono più parole.
Il passato ritorna e cambia forma, i festosi picnic sull’erba dei grassi borghesi in pantaloni di velluto blu e bretelle con le bionde Fräulein dai fiori fra i capelli del miracolo economico targato Germania anni trenta ora si chiamano turismo di massa, dopolavoro ferroviario in gita aziendale o scuola in viaggio d’istruzione, Reisen Bus per la terza età che non ha più nipoti da badare visto il calo delle nascite o “cosa faccio di bello nel week end? Vado al lager ”.
E allora si va anche al lager. Forni, baracche, sale di tortura, tutto si deve vedere e fotografare, archiviare e dimenticare di nuovo, soprattutto bisogna dimenticare la guida che fa gran confusione e dice che dai rubinetti usciva acqua per le docce e pure gas.
Poche le voci, qualche frase in presa diretta che si accartoccia su sé stessa come le cartacce per terra, la distanza annulla le parole, l’inutile chiacchiericcio. Resta l’orrore, non per il lager, per l’orrendo Leviatano postmoderno che tutto stritola nelle sue spire.
Solo un viso di ragazza bionda dalle guance paffute di bambola consola, ferma a lungo attonita a guardare.
“ Tutto ciò che si guarda esiste prima nella nostra memoria” ha detto Loznitsa, e Maidan, 2014, Riflessioni in Les ponts de Sarajevo, 2014, Sobytie (The event) a Venezia lo scorso anno, sono stati ogni volta segni visivi, memoriali su cui il tempo si accanirà, come su tutto, ma se la carta, la pietra, la pellicola, tutto ritorna polvere, solo la poesia resta “ … e l’armonia vince di mille secoli il silenzio”.
Torna, come all’origine dei tempi, quando l’uomo senti l’esigenza di raccontarsi, il segno puro, l’oggetto visivo che elabora la sua lingua universale.
“Per meravigliosa che fosse la fede nel documento scritto, Shoah dimostrava come occorresse ristabilire la testimonianza orale”.
E Austerlitz è testimonianza orale di un orrore nuovo, in un afoso giorno d’estate tra shorts, mini pants, t-shirt e leggins, carrozzine con baby urlanti e panini ormai freddi al prosciutto e formaggio.
“Orrore, orrore, uomo, togliti gli abiti, copriti il capo di cenere, corri nelle strade e danza, colto da follia”
Jacob Schulmann rabbino di Grabów in Shoah di C.Lanzmann