Dopo Heli, Amat Escalante torna a girare a Guanajuato cercando di spingere la violenza tutta in campo del suo cinema ai margini dello schermo, inventandosi una deriva horror desunta esplicitamente da Possession di Andrzej Żuławski; un mostro ospitato in una capanna isolata nella foresta e con il sembiante di un polipo, regala piacere e penetrazioni multiple assolvendo una funzione apparentemente liberatoria.
Per quanto la città più cattolica del messico non sia la Berlino degli anni ottanta, il tentativo di Escalante è quello di tentare un’antropologia del desiderio, raccontando il rimosso politico e sociale di un paese dilaniato dalla violenza.
Si ha la sensazione che l’allegoria fantastica che occupa il centro del suo film, assorba in un’immagine esplicita e sin troppo chiara, l’idea di un cinema che vorrebbe farsi allusivo e procedere per differenze.
Il fuori campo non è un aspetto che evidentemente interessa al giovane regista messicano, ma proprio nel momento in cui ne cerca gli interstizi all’interno del contesto famigliare, questo viene disinnescato da una nota a margine forzatamente visionaria ed esplicitamente indirizzata.
Allora, proprio con La Region Salvaje diventano evidenti tutti i problemi del suo cinema.
Il ruolo delle donne, la percezione dell’alterità, i diritti LGBT, repressione famigliare e politica che dialogano a distanza, questioni importanti inserite nelle dinamiche chiuse di un cinema che pretenderebbe di lavorare per sottrazione, ma che non riesce a rilevare lo scarto e la differenza, proprio per lo spazio dedicato alla dimensione allegorica, scorciatoia autoritaria e senza uscita.